Alcamo – Rimangono in carcere l’ex senatore del Pd l’alcamese Nino Papania e l’ex vicesindaco di Alcamo, Pasquale Perricone, entrambi coinvolti nell’operazione della squadra Mobile di Trapani Eirene accusati di scambio politico-mafioso. Il Tribunale del Riesame di Palermo infatti ha respinto il ricorso presentato dagli avvocati dei due ex politici con il quale chiedevano una misura meno afflittiva: la detenzione domiciliare. I legali infatti nel ricorso sostenevano che: “non sussistessero elementi di inquinamento delle prove né pericolo di reiterazione del reato o rischio di fuga”. Il Riesame però ha confermato il carcere, ritenendo valide le misure cautelari imposte dal giudice per le indagini preliminari. Appena i legali conosceranno le motivazioni presenteranno ricorso in Cassazione. Già la Suprema Corte aveva rigettato, il primo ricorso per la scarcerazione, presentato dai difensori subito dopo gli arresti avvenuti lo scorso 15 settembre.
L’operazione Eirene, effettuata ad Alcamo e Calatafimi Segesta dalla squadra Mobile di Trapani e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, riguardava un presunto sistema di scambio elettorale tra politica e mafia in occasione delle elezioni regionali del 2022. Secondo l’accusa, Papania e Perricone avrebbero garantito sostegno elettorale in cambio di favori, coinvolgendo esponenti del clan mafioso locale. Le accuse a vario titolo (nell’inchiesta finirono indagati anche altre persone) vanno dall’associazione mafiosa, all’estorsione, detenzione di armi e su alcuni episodi di voto di scambio politico-mafioso per le elezioni regionali del 2022. Papania e Perricone in particolare sono indagati solo per voto di scambio politico-mafioso (art. 416 ter).
Intanto dopo la consegna dell’avviso di conclusione indagini, avvenuta lo scorso dicembre, si attende la fissazione dell’udienza preliminare per l’eventuale rinvio a giudizio e quindi a seguire la data di inizio del processo che potrebbe arrivare subito dopo l’estate. Udienza preliminare che vedrà davanti al Gip tredici indagati coinvolti nell’operazione Eirene. I due ex esponenti politici alcamesi sono in carcere al Pagliarelli di Palermo.
Trapani – E’ l’ultimo atto prodotto dall’accusa nel processo scaturito dall’operazione dei Carabinieri di Trapani, condotta nel 2019 e indicata con il nome di “Artemisia”. Anzi con l’udienza di oggi siamo alla prima puntata di questo ultimo atto. Imputati sono tanti. A cominciare dall’ex deputato regionale Ncd Giovanni Lo Sciuto, ad una sfilza di politici di Castelvetrano, come l’ex sindaco Felice Errante, da alcuni poliziotti, Passanante, Virgilio, Giacobbe, uno di questi per anni in servizio alla Dia a professionisti componenti di organi di controllo, come il collegio dei sindaci dell’Asp, dal direttore dei servizi medico legali dell’Inps Rosario Orlando all’ex re della formazione professionale in Sicilia, Paolo Genco.
Il pm Sara Morri oggi ha cominciato a esporre la requisitoria, parlando per quasi sei ore, continuerà domani e forse avrà bisogno ancora di un’altra udienza per giungere alle richieste. Un processo certamente non facile, per il compendio affaristico venuto fuori, condotto a conclusione dal pm Morri che ha gestito l’istruttoria assieme al pm Francesca Urbani: ai giudici, collegio presieduto dal giudice Messina, a latere Bandiera e Cantone, le due pm consegneranno una memoria, un volute di quasi mille pagine. Accompagnando le richieste finali, la previsione è quella che saranno richieste di condanna pesanti.
Nella esposizione delle conclusioni, citando il contenuto di intercettazioni e interrogatori, di testimonianze raccolte in aula, dei rapporti investigativi prodotti dal Reparto Operativo del comando provinciale dei Carabinieri di Trapani, è venuto fuori, dalle parole del pm Morri, pesate una per una, ma nette e decise, un quadro che ha rappresentato gli imputati come se fossero dei moschettieri. Uno per tutti e tutti per uno. Moschettieri…del malaffare. La struttura processuale è risultata netta nel descrivere in che modo l’ex deputato Lo Sciuto ed i suoi più fidati collaboratori erano soliti adoperarsi per garantirsi il raggiungimento degli obiettivi prefissati: “Appena uno ha un problema gli altri si adoperano a risolverlo senza remore, tutti a disposizione dell’altro”. Una certa forma di fratellanza, tanto da ricordare quella massonica. Tra le accuse contestate c’è anche quella della partecipazione in forma associativa ad una massoneria segreta, argomento che il pm Morri è previsto affronterà nell’intervento di domani mattina.
Una gran bella ammucchiata di nomi. Primo fra tutti quello dell’ex deputato regionale, il castelvetranese Giovanni Lo Sciuto, a sua disposizione ci sarebbero stati anche dei poliziotti, Salvatore Passanante Salvatore Virgilio, Salvatore Giacobbe, e poi il presidente dell’Anfe, Paolo Genco, un medico che controllava le commissioni legali dell’Inps, Rosario Orlando. E ancora politici e pubblici amministratori, l’indagine racconta l’esercizio quotidiano di un potere politico spregiudicato nel regno assoluto del boss Matteo Messina Denaro. E dentro questo circolo c’era chi apprendeva di intercettazioni che dovevano rimanere segrete ancora di più perchè riguardavano le attività di ricerca del capo mafia. Un panorama inquietante.
Nelle parole del pm, Giovanni Lo Sciuto emerge come un politico in possesso di una “spiccata attitudine al crimine” e capace di orientare consenso a proprio favore usando la corruzione. Faccia da gran simpaticone, medico con la passione per la politica, consigliere e assessore comunale a Castelvetrano, consigliere e assessore alla Provincia regionale, poi l’arrivo a Sala d’Ercole nella XVI legislatura (2012/2017), dove è andato a sedere anche dentro la commissione regionale antimafia, nonostante i suoi passati giovanili che lo hanno visto anche immortalato in una foto con l’allora giovanissimo, come lui d’altra parte, Matteo Messina Denaro. Oggi la pubblica accusa ha molto insistito sul rapporto tra Lo Sciuto e Genco, quest’ultimo detto “il tonno”, forse per la spiccata capacità di nuotare in qualsiasi mare, o come il tonno di lui non si buttava via mai nulla, tutto quello che faceva era buono a dar forza al cerchio magico di Lo Sciuto, ad accrescere il suo potere. Lo Sciuto soddisfatto poi commentava, “io a tutti do una cosa”. Per Genco, l’on. Lo Sciuto era l’uomo giusto in Parlamento regionale per garantirsi fondi per l’Anfe, ricambiava con sostegno elettorale, innanzitutto finanziario, assunzioni. E Lo Sciuto a Genco non solo avrebbe aperto le porte di Parlamento e assessorati a Palermo, ma anche uffici ministeriali a Roma. Se qualcuno si metteva di traverso ecco che partiva l’offensiva, ne sanno qualcosa l’allora assessore regionale alla Formazione, Bruno Marziano, o la dirigente di una scuola superiore di Castellammare del Golfo, Loana Giacalone.
Il primo subì una campagna per spingerlo alle dimissioni, “scateneremo l’inferno”, ma a parlare non era il generale romano Massimo Decimo Meridio, ma Lo Sciuto e Genco decisi a pressare l’assessore per rifare daccapo la procedura per dividere i soldi per la formazione e concedere la fetta più grossa all’Anfe; l’altra, la preside Giacalone, venne affrontata in maniera brusca e minacciosa per non aver acconsentito a concedere le aule ad un corso dell’Anfe.
Solo e soltanto “logiche clientelari”, “logiche utili ad accentrare potere e controllare la pubblica amministrazione”, comportamenti che il pm Morri ha posto a carico dell’ex deputato Lo Sciuto. Tra le nomine conquistate quella di Gaspare Magro, commercialista, nel collegio dei revisori dei conti dell’Asp di Trapani. Magro oltre che essere un finanziatore delle campagne elettorali di Lo Sciuto, è anche un iscritto alla massoneria. Quando arrivò la nomina all’Asp, decise di “mettersi in sonno”, di sospendere la frequentazione della loggia alla quale era iscritto, informando di questo proprio Lo Sciuto che gli rispondeva di aver fatto bene, “dinanzi ai teoremi e sospetti che la magistratura alimenta” e infine i due si salutavano dandosi del “Fratello”, con la f maiuscola. Avrà significato qualcosa?
L’indagine “Artemisia” descritta in queste prime sei ore di requisitoria del pm Sara Morri, ha fatto scoprire l’esistenza di un campo minato, “un territorio tenuto occupato, governato con la corruzione, dove non valeva la meritocrazia o il riconoscimento di un bisogno, ma funzionava il favore, la raccomandazione, in cambio innanzitutto di consenso elettorale”.
Rita Atria: Il Coraggio di una Giovane Testimone di Giustizia
Rita Atria nacque il 4 settembre 1974 a Partanna, un piccolo paese della provincia di Trapani, in una famiglia legata ad ambienti mafiosi. Il padre, Vito Atria, era un boss locale ucciso in un regolamento di conti nel 1985. La morte del padre segnò profondamente Rita, spingendola a cercare giustizia al di fuori del codice mafioso dell’omertà.
Dopo la morte del fratello Nicola, anch’egli coinvolto in dinamiche criminali e assassinato nel 1991, Rita decise di rompere con il passato e di collaborare con la giustizia.
Rita Atria trovò una guida e una protezione in Paolo Borsellino, il magistrato che si occupava delle sue dichiarazioni. A soli 17 anni, decise di testimoniare contro i clan mafiosi della sua terra, offrendo informazioni preziose che contribuirono a far luce su diversi crimini.
Venne trasferita a Roma sotto protezione, vivendo in isolamento e sotto falsa identità. La sua vita cambiò radicalmente: da giovane di una famiglia mafiosa divenne testimone di giustizia, pagando un prezzo altissimo per la sua scelta.
Il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino venne ucciso nella strage di via D’Amelio. La sua morte fu un colpo devastante per Rita, che perse l’unico punto di riferimento rimastole. Sola, isolata e priva di protezione, il 26 luglio 1992, una settimana dopo la strage, si tolse la vita lanciandosi dal settimo piano del suo appartamento a Roma.
Rita Atria è diventata un simbolo della resistenza contro la mafia. La sua storia, a lungo ignorata, oggi viene ricordata come esempio di coraggio e ribellione contro un sistema di violenza e omertà. Il suo nome è associato a numerose iniziative antimafia, scuole, associazioni e movimenti che lottano per la legalità, in particolare in Sicilia e a Trapani, dove il suo sacrificio è sempre più riconosciuto.
A Partanna e in altre città siciliane, gruppi di attivisti continuano a portare avanti il suo messaggio, affinché nessun giovane si senta più solo nella scelta di opporsi alla mafia.
La storia di Rita Atria ci ricorda che la lotta alla mafia è anche una questione di scelte individuali e di coraggio. Il suo sacrificio non è stato vano, e il suo esempio continua a ispirare nuove generazioni nella battaglia per la giustizia e la verità.
Leonardo Sciascia nacque l’8 gennaio 1921 a Racalmuto, un piccolo paese in provincia di Agrigento. Fin da giovane mostrò una spiccata passione per la lettura e la scrittura, formandosi attraverso la letteratura italiana e internazionale. Dopo gli studi magistrali, iniziò a lavorare come insegnante elementare, un’attività che mantenne per diversi anni prima di dedicarsi interamente alla scrittura.
L’infanzia e l’adolescenza trascorse in Sicilia influenzarono profondamente il suo pensiero e la sua produzione letteraria. Racalmuto e i suoi abitanti divennero spesso fonte d’ispirazione per i suoi romanzi e racconti, che si concentrano sulla realtà siciliana, sulle ingiustizie sociali e sulla pervasività del potere mafioso.
Nel 1961, con la pubblicazione de Il giorno della civetta, Sciascia portò per la prima volta la mafia nella letteratura italiana con un realismo e una lucidità straordinari. Il romanzo, ispirato a un reale caso di omicidio avvenuto in Sicilia, denunciava l’omertà, la connivenza tra politica e criminalità organizzata e l’indifferenza delle istituzioni. Questo libro segnò una svolta nel modo in cui la società italiana percepiva la mafia e diede inizio a un importante dibattito culturale e politico.
Oltre a essere uno scrittore di fama internazionale, Sciascia si impegnò anche in politica. Fu eletto consigliere comunale a Palermo e, successivamente, deputato al Parlamento italiano ed europeo. Durante la sua attività politica, continuò la sua battaglia contro la mafia e il malaffare, denunciando con coraggio la corruzione e le ingiustizie del sistema giudiziario.
La Sicilia non fu solo lo scenario delle sue opere, ma anche il cuore pulsante del suo pensiero critico. I suoi libri riflettono la complessità dell’isola, le sue bellezze, le sue contraddizioni e le sue tragedie. Anche Trapani, con la sua storia e le sue vicende legate alla criminalità organizzata e alla politica, rappresentò un punto d’interesse per lo scrittore, che attraverso i suoi saggi e romanzi offrì un’analisi penetrante della realtà siciliana.
Leonardo Sciascia morì il 20 novembre 1989, lasciando un’eredità culturale straordinaria. I suoi scritti continuano a essere studiati e letti in tutto il mondo, e il suo impegno civile rimane un esempio di integrità e coraggio.
Oggi, la sua figura è ricordata non solo per la sua produzione letteraria, ma anche per il suo ruolo di intellettuale impegnato, che non esitò mai a dire la verità, anche quando scomoda. La Sicilia, e in particolare la sua Racalmuto, continuano a celebrare il suo lascito con iniziative culturali, premi letterari e studi dedicati alla sua opera.
Leonardo Sciascia è stato molto più di un semplice scrittore: è stato un testimone del suo tempo, un uomo che con la forza della parola ha combattuto il silenzio e l’omertà. Le sue opere restano un faro di verità e di denuncia, una guida per comprendere la Sicilia e le sue complessità, nonché un punto di riferimento per chiunque creda nella giustizia e nella libertà di pensiero.
Trapani – Proseguiranno anche oggi gli appuntamenti di Libera in vista della Giornata della Memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia e che vedrà protagonista Trapani, in programma il 21 marzo prossimo. In programma oggi due incontri a Castellammare del Golfo e ad Alcamo, presente ancora don Luigi Ciotti.
Il 21 marzo ci sarà l’abbraccio ai familiari delle vittime innocenti delle mafie, delle stragi, del terrorismo e del dovere. Tre gli appuntamenti che hanno scandito la giornata di ieri. A Salemi don Ciotti ha incontrato la città. A Trapani all’università, organizzato da Libera, dalla Consulta comunale per la pace e dal Polo universitario l’incontro sul tema della pace e su come costruirla. Poi al seminario vescovile presente don Ciotti e il vescovo Monsignor Pietro Maria Fragnelli.
Ogni anno una città diversa stavolta Trapani, e un lungo elenco di nomi da scandire per mantenere viva la memoria e l’impegno quotidiano. “Quest’anno sono 30 anni di Libera e della Giornata della Memoria e dell’impegno, oggi Legge dello Stato. Trapani, come segno di affetto, di stima, di riconoscenza a questa terra e a quanti per essa si sono impegnati. Ci hanno messo la faccia, la loro passione, la loro energia, il loro sacrificio, nel contrasto alle varie forme di illegalità, di corruzione alle mafie. Poi per ricordare, chi ha speso ed ha sacrificato la propria vita ed è stato spazzato via dalla violenza mafiosa. Giornata della memoria ma anche dell’impegno. Di una memoria viva che deve tradursi tutti i giorni in responsabilità. Non è una cerimonia, un evento. Non possiamo fare questo a quelle centinaia e centinaia di familiari che verranno qua. Quindi la vicinanza ai familiari delle vittime il rispetto per questa terra meravigliosa, ferita dalla forza criminale, ma capace di percorsi di alternativi”.
Lei sta incontrando tanti giovani affascinati dal suo modo di parlare. “Stamane (ieri per chi legge) a Salemi mi ha colpito il loro modo di partecipare, segno che hanno bisogno di cose vere, vive, concrete, e quando incontrano persone adulte coerenti, credibili, loro si infiammano. Non è vero che i nostri ragazzi sono distanti. Vivono in un mondo virtuale, ma hanno bisogno di cose di carne, di vita, di passione. E loro ci sono. Tocca a noi adulti cogliere i loro percorsi inediti, saperli ascoltare. Il 21 marzo arriveranno da ogni parte d’Italia. Non è semplice, non è facile, anche a livello economico. A Napoli stanno raccogliendo i soldi per una nave per vedere le bellezze di questa terra. Un gesto di affetto e vicinanza ai familiari che arriveranno”.
Lei conosce bene Trapani e le sue dinamiche, cosa è cambiato in questi anni. “Frequento questa provincia da tanti anni, ho trovato tanta bella gente, come ho trovato anche quelli che vivono ripiegati su se stessi. Indifferenza, la delega, il pensare che tocca sempre agli altri fare. Questa terribile malattia che si respira in tanti contesti. I neutrali e anche i mormoranti: quelli che arrivano, ascoltano non dicono mai nulla e poi nei vari salotti giudicano, etichettano. Ma ho visto un sacco di gente bella, con tanta voglia di bellezza di impegno, di corresponsabilità. In Italia è da 170 che parliamo di mafia. Non basta tagliare la malerba in superficie, bisogna estirpare il male alla radice”.
Don Ciotti, tanti anniversari quest’anno. Il 30esimo di Libera e della Giornata della Memoria, il 40esimo della Strage di Pizzolungo, il 42esimo dell’omicidio di Ciaccio Montalto. Tanti anniversari e tante vittime anche in questa provincia. “Sono tante le vittime innocenti di questa provincia. Ricordiamo le vittime della strage di Pizzolungo è stata in quell’occasione che abbiamo annunciato che la giornata della memoria si sarebbe svolta a Trapani nel 2025. Ma ricordiamo anche che Giovanni Falcone ebbe la sua prima sede a Trapani, Paolo Borsellino lavorò alla Procura di Marsala, GianGiacomo Ciaccio Montalto in quella di Trapani. Tante, tantissime sono le vittime. Noi le ricorderemo tutte con la stessa forza e dignità. Non dimenticheremo nessuna vittima anche i nomi meno conosciuti. Tutti questi nomi quando li pronunceremo non possono essere solo uditi, ma dobbiamo sentirli di più dentro la nostra vita dentro la nostra coscienza, perchè la memoria deve essere ogni giorno della nostra vita”. (foto di copertina – Joe Pappalardo)
Magenta (Milano) – È stato arrestato Paolo Aurelio Errante Parrino. E’ stato preso davanti a un ospedale. La latitanza di «Zio Paolo» è durata lo spazio di tre giorni. I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano lo hanno fermato nel pomeriggio ieri all’ingresso dell’ospedale di Magenta nel Milanese. Errante Parrino 78 anni, presunto boss di Abbiategrasso parente da parte di moglie di Matteo Messina Denaro doveva essere arrestato lo scorso 25 gennaio, ma il boss si era reso irreperibile.
Gli investigatori, coordinati dal pm Alessandra Cerreti della Dda di Milano – oggetto di minacce negli ultimi tempi insieme al procuratore Marcello Viola -, hanno eseguito l’ordine di carcerazione diventato esecutivo dopo il rigetto del ricorso in Cassazione per l’inchiesta Hydra sull’alleanza mafiosa tra Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta.
Non è escluso che l’uomo venga ricoverato per questioni di salute. Il suo legale, Roberto Grittini, avrebbe già chiesto al Tribunale la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari. Lo «Zio Paolo» è considerato dagli investigatori dell’antimafia il referente della mafia trapanese in Lombardia e avrebbe tenuto per anni anche rapporti con l’ex latitante di Castelvetrano.
Milano – Innalzate le misure di sicurezza per il procuratore di Milano Marcello Viola e per la pm Alessandra Cerreti, entrambi sono già sotto scorta. L’inchiesta Hydra punta sull’alleanza in Lombardia tra camorra, ‘ndrangheta e Cosa nostra. L’allerta sale anche dopo l’arresto, casuale, di uno degli indagati trovato con un revolver in piazza San Babila
Minacce ritenute molto serie e circostanziate, che hanno portato ad innalzare le misure di sicurezza nei confronti dei due magistrati, mentre la Procura di Brescia, competente sulle indagini che vedono vittima le toghe milanesi, ha aperto una inchiesta.Il timore è che le minacce – si legge sulle pagine locali di Corriere della Sera e Repubblica – siano collegate con l’inchiesta ‘Hydra’ sulla mafia a tre teste, ovvero l’alleanza in Lombardia tra Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta, entrata nel vivo con la conferma della suprema corte dell’impianto dell’accusa di mafia e l’esecutività degli arresti.
Tra questi Gioacchino Amico, poi scarcerato perché aveva già passato un anno in custodia cautelare per altri reati, e Giovanni Abilone, ritenuto dagli inquirenti uno degli esponenti mafiosi collegati al mandamento di Castelvetrano di Matteo Messina Denaro. Scoperto anche un arsenale di armi: mitra, fucili, pistole automatiche e munizioni. E’ invece ancora irreperibile Paolo Aurelio Errante Parrino, 77 anni, considerato il “punto di raccordo” tra il presunto “sistema mafioso” in Lombardia e il “capo dei capi” Matteo Messina Denaro.
Il procuratore Viola ha lavorato per anni tra Palermo e Trapani, in prima linea nella battaglia a Cosa nostra. Adesso però i livelli di attenzione sono massimi perché gli inquirenti temono un collegamento con l’inchiesta «Hydra» del Nucleo investigativo dei carabinieri e della Dda che proprio in questi giorni sta incassando la conferma degli arresti dalla Cassazione, dopo che il Riesame aveva accolto il ricorso della procura per 41 indagati in seguito alla bocciatura a ottobre ‘23 da parte del gip di 142 istanze di misura cautelare su 153.
L’inchiesta sulla «mafia a tre teste» con l’alleanza tra Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta è stata coordinata proprio dalla pm della Dda Alessandra Cerreti. E le minacce di morte risalirebbero a ottobre, periodo in cui il magistrato era in aula con il procuratore Viola per discutere i ricorsi al Riesame. Un segnale «inquietante» che confermerebbe la pericolosità del «sistema mafioso lombardo». Le indagini si muovono nel riserbo, ma mercoledì l’arresto del tutto casuale in piazza San Babila di uno degli indagati, Giovanni Abilone, con la scoperta di un arsenale nascosto di armi da guerra (mitra, fucili e pistole automatiche che ha detto di aver «trovato in montagna») ha allarmato ulteriormente questura e prefettura che già avevano «innalzato» le misure di sicurezza intorno ai due magistrati.
Trapani – Vado diretto. Senza giri di parole. Anche su di giri, lo riconosco. Non sono speranzoso di aprire chissà quale breccia, però sono abituato a non mandare a dire le cose.
Sono trascorsi con oggi 42 anni dall’omicidio mafioso del magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Quando fu ammazzato, in quel di Valderice, il 25 gennaio 1983, aveva 42 anni, era pm a Trapani in procinto di assumere lo stesso ufficio a Firenze. Stava andando via da Trapani, la mafia trapanese decise di liberarsi di lui in maniera definitiva. Ci vorranno decenni a capire il perché di quella decisione. In Toscana Cosa nostra aveva già la sua base, c’erano all’opera i mafiosi della provincia di Trapani, che lì riciclavano i capitali nel mondo delle imprese, e negli affari. Era evidente che il delitto era di mafia, ma Cosa nostra si diede subito da fare a sporcare, a mascariare, il nome di quel magistrato. Non dovette sforzarsi molto, riuscì subito nell’intento, complice una società che all’epoca negava l’esistenza della mafia. Ma le complicità non erano solo in giro per le strade della città, albergavano nei salotti, in mezzo alla borghesia cittadina, dentro a quel Tribunale, dove girava il verme della corruzione, dove c’era un procuratore della Repubblica che spesso faceva passare per incerto quello che a lui stesso risultava certo. Le parole non sono mie, ma proprio del magistrato Ciaccio Montalto, scritte in una delle lettere che si scambiò con un altro giudice per bene, Mario Almerighi.
Ecco, vengo al dunque: in 42 anni da quel delitto non ho mai sentito una sola persona chiedere scusa a Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Tante iniziative a ricordarlo, mostre, teatro, convegni, barche a vela (cosa questa che fa impazzire la città, dimenticando che con le vele la mafia ha fatto grandi business), ma mai nessuno a chiedere perdono, per aver maltrattato quel magistrato, in vita e poi anche dopo essere stato vittima della mafia. Ciaccio Montalto fu il primo pm ad essere ucciso, fino ad allora la mafia aveva usato i sicari per uccidere i capi degli uffici, delitti orribili, ma fino al 1983 aveva risparmiato i sostituti procuratori. In Ciaccio Montalto aveva riconosciuto l’inquirente che non si sarebbe fermato mai davanti a niente, che nessuno sarebbe mai riuscito a convincere “ad abbassare i toni”, il nemico da sconfiggere. Perché era anche quello che dentro al mondo della giustizia aveva saputo riconoscere i mali, quei problemi da sconfiggere per riuscire a saper rendere Giustizia.
La politica, allora quella di governo rappresentata dalla Dc, che metteva mano nelle nomine dei vertici giudiziari. La politica che grazie a certi procuratori modellava le leggi in certa maniera, “senza tenere conto dell’interesse pubblico”. Ciaccio Montalto che riconosceva di “vivere in fondo al sacco”, ma che Trapani era un osservatorio privilegiato per capire come andavano certe cose, perché, riconosceva, c’erano decisioni sottoscritte a Roma o a Palermo, ma che era qui, dove viveva lui, che venivano prese. Trapani, dove in quegli anni la mafia con la politica, e la massoneria, avevano costituito un invincibile convitato di pietra. Capace di spiare il lavoro di magistrati e mandare a dire a certi poliziotti, per esempio, che il regno degli esattori Salvo di Salemi non doveva essere mai toccato. Ucciso Ciaccio Montalto, pochi mesi dopo, a Palermo, la stessa mafia fece a pezzi con l’esplosivo il capo dell’ufficio Istruzione, il giudice Rocco Chinnici. Ciaccio Montalto che scriveva del mondo delle carceri. Pare leggere qualcosa di attuale, i mafiosi trattati con rispetto, i poveracci maltrattati. O ancora, il passaggio nei suoi scritti dedicato al terrorismo, “usato come specchietto per le allodole”, per non far guardare verso altri versanti. Ma non vi sembra che la situazione di quegli anni è sovrapponibile a quella di oggi?
Oggi che si dice che l’emergenza sono i migranti o ancora tante altre cose, compresi i chiodi infilzati nelle centraline ferroviarie, o che è dispendioso dare risorse ai Palazzi di Giustizia, ogni giorno svuotati di qualcosa. La mafia comandava e intanto Ciaccio Montalto passava per uno ammazzato per questioni amorose. Lui che aveva scelto di animare una corrente della magistratura dal nome altosonante, Impegno Costituzionale. Lui nella Costituzione ci credeva per davvero, tanto da perderci la propria vita. Ed allora chiudete con le scuse quella stagione infame. Così davvero si potrà ricordare per come merita il magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto.
Trapani – Paolo Ruggirello, ex deputato regionale, in ultimo del Pd, ma la scalata politica cominciò al fianco dell’ex leader autonomista Bartolo Pellegrino, per poi passare dal centrodestra ai dem, è stato un politico vicino ai boss. Con loro condivideva campagne elettorali e affari. Da Trapani a Campobello di Mazara. Da qui la condanna a 12 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, inflitta in primo grado dal Tribunale di Trapani e adesso confermata dalla Corte di Appello di Palermo.
E’ l’ulteriore pronuncia giudiziaria scaturita dal blitz antimafia condotto dai Carabinieri nel 2019 nell’ambito dell’operazione “Scrigno”.
Una indagine che a Trapani, quando esplose, venne addirittura maltrattata anche in certi commenti, avventati, pure con certa rilevanza giornalistica, ma che nei vari processi, alcuni celebrati col rito ordinario, altri con l’abbreviato e questi ultimi diventati anche definitivi. Politici a stretto contatto con mafiosi del rango dell’ex consigliere comunale Franco Orlando e dei fratelli Virga, Pietro e Franco, figli dell’ergastolano Vincenzo, indiscusso capo mafia di Trapani per quasi un ventennio, condannato all’ergastolo per la strage mafiosa di Pizzolungo e per l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno. Per Orlando (12 anni) e i fratelli Virga, Pietro (19 anni e 4 mesi) e Franco (16 anni e 8 msi), le condanne legata a questa indagine sono già definitive.
I pm della Dda di Palermo avevano fatto ricorso contro la condanna per concorso esterno del’ex deputato Ruggirello, chiedendo il riconoscimento della sua appartenenza all’associazione mafiosa. Ma i giudici di appello come quelli di primo grado, hanno ritenuto più corrispondente l’accusa di concorso esterno. Contro Ruggirello resta in piedi la motivazione della condanna, e cioè quella di aver favorito gli interessi di Cosa Nostra nella provincia trapanese e di avere cercato l’appoggio elettorale delle cosche: in cambio l’esponente del Pd sarebbe stato il punto di riferimento all’interno dell’amministrazione regionale, facendo vincere appalti a imprese «amiche».
Nel processo “Scrigno” condanne confermate per voto di scambio per altri due politici. L’ex consigliere provinciale, l’architetto Vito Mannina (1 anno e 8 mesi) e l’ex consigliere comunale di Erice Alessandro Manuguerra (1 anno). La condanna di Mannina è legata alla campagna elettorale condotta nel 2017 in favore della figlia Simona, eletta poi consigliere ad Erice. Elezioni che hanno visto partecipare anche Manuguerra. Per Mannina padre e Manuguerra i giudici hanno rigettato la richiesta dell’accusa di riqualificare il reato in voto di scambio politico-mafioso.
I giudici di appello hanno cancellato la condanna per mafia nei confronti di Vito Gucciardi, condannato adesso per favoreggiamento aggravato. Rispetto ai 12 anni inflitti in primo grado, Gucciardi è stato condannato a 5 anni e 10 mesi. Avendo scontato la pena è stato scarcerato.
Diminuita di pochi mesi la condanna per mafia a 21 anni di Nino Buzzitta, anziano “consigliore” del mandamento mafioso di Trapani: condanna rideterminata in venti anni e sette mesi di reclusione. Buzzitta nel tempo era sempre riuscito a sfuggire a condanne pesanti, ma stavolta i Carabinieri sono riusciti a intercettarlo mentre si metteva in tasca il denaro frutto dell’attività mafiosa. L’operazione Scrigno svelò anche l’esistenza di una famiglia mafiosa sull’isola di Favignana, nelle mani di un ex detenuto agrigentino, originario di Ravanusa, Vito D’Angelo, rimasto sull’isola a “mafiare”. Per lui confermata la condanna a 16 anni.
In Cassazione frattanto sono stati condannati in via definitiva altri indagati della stessa indagine “Scrigno”. Tra questi l’ex leader dell’associazione dei piccoli industriali Ninni D’Aguanno ( 3 anni e 4 mesi). E poi Francesco Paolo Peralta (8 anni e 4 mesi), Francesco Salvatore Russo (1 anno e 6 mesi), Pietro Cusenza (8 anni e 4 mesi), Vincenzo Ferrara (3 anni e 4 mesi),Giuseppe Piccione (8 anni), Carmelo Salerno (12 anni), Michele Martines (13 anni e 4 mesi), Francesco Orlando (12 anni e 8 mesi), Jacob Stelica (un anno), Mario Letizia (8 anni e 4 mesi), Leonardo Russo (3 anni), Michele Alcamo (3 anni)
Valderice – Il 25 gennaio del 1983 a Valderice fu ammazzato per mano mafiosa un Servitore dello Stato il giudice GianGiacomo Ciaccio Montalto. Quella di Ciaccio Montalto è la storia di un magistrato onesto, di un magistrato che prima di tutti aveva capito dove colpire la mafia e i suoi solidali per vederla sconfitta, i soldi.
Oggi Valderice ha ricordato il sacrificio del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto, ucciso in una stradina della cittadina, mentre rincasava presso la sua abitazione.
La mafia di quegli anni di Ciaccio Montalto è la stessa di oggi. Una mafia che non spara più ma che si è infiltrata nelle istituzioni, nell’impresa, nelle banche come ai tempi di Ciaccio Montalto, che era andato a bussare alla porta di alcune di queste prendendosi e portandosi in ufficio gli assegni dei boss, i guadagni dei traffici di droga, delle raffinerie di eroina impiantate nel trapanese, degli appalti. La mafia che uccise Ciaccio Montalto è la stessa che oggi potente ha saputo proteggere il suo nuovo capo Matteo Messina Denaro. Nonostante le numerose minacce Ciaccio Montalto, non si arrese mai, continuando a lavorare con disciplina e rigore. Attualissime rimangono ancora ora le indagini di quel giudice che prima di essere ammazzato stava per essere trasferito a Firenze. Il giudice Ciaccio Montalto è una delle prime vittime eccellenti nel segno dell’aggressione voluta dal boss Totò Riina.