Quel cielo grigio su Superga: l’ultima corsa del Grande Torino
La leggenda del Grande Torino: quando il calcio si fece destino, memoria e dolore eterno
Redazione3 Maggio 2025 - Calcio



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    Torino, Il 4 Maggio 1949, le nuvole, quel pomeriggio, sembravano spesse come lana bagnata. Torino era avvolta in un silenzio irreale, mentre sulla collina di Superga il vento sferzava la pietra della basilica come se volesse dire qualcosa, gridare, fermare tutto. Ma era troppo tardi.

    Alle 17:03, un rombo sordo squarciò il cielo. Non era solo un aereo che cadeva. Era un sogno. Era un’intera squadra che smetteva di esistere nel tempo di un battito. Il trimotore Fiat G.212 della compagnia ALI, di ritorno da Lisbona, s’infranse contro il muraglione posteriore della basilica. Nessun superstite. Trentuno vite spazzate via in un istante: diciotto calciatori, l’allenatore, i dirigenti, tre giornalisti, l’equipaggio.

    Ma non era solo una squadra. Il Torino di quegli anni – il “Grande Torino” –  era un simbolo, un orgoglio popolare, una macchina perfetta fatta di passaggi precisi, corse instancabili e cuori che battevano all’unisono. Era l’Italia che si stava rialzando dalla guerra, ed era il calcio che diventava poesia.

    Erano ragazzi con nomi che ancora oggi suonano leggendari: Valentino Mazzola, che si rimboccava le maniche prima di ogni assalto come un generale prima della battaglia. Ezio Loik, Gabetto, Maroso, Bacigalupo… nomi che non servono più a raccontare partite, ma a raccontare una ferita.

    Quel giorno, l’Italia si fermò. Non c’erano social, non c’era il flusso continuo di notizie. C’era solo la voce roca delle radio, che scandiva i nomi dei morti. E c’era il dolore, nudo e assoluto, che attraversava le città, i campi, le osterie. Si andava in edicola a comprare i giornali con le lacrime. Si taceva davanti ai bar. Si piangeva come per un parente.

    Ogni 4 maggio, su quella collina, i tifosi salgono in silenzio. Non si tratta solo di ricordare un incidente, ma di raccontare – ancora e ancora – che cosa significa amare una maglia. Morire per una passione. Rimanere, in qualche modo, eterni.

    Perché il Grande Torino non è mai sceso davvero da quell’aereo. Continua a volare nei racconti dei padri, nelle lacrime dei nonni, nei cori dei ragazzi che non li hanno mai visti giocare ma li sentono comunque parte della propria storia.

    E allora sì, ogni anno, quel cielo sopra Superga torna a farsi denso. Ma non di nuvole. Di memoria. Di rispetto. Di silenzio che sa di applausi.




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