Palermo – “Non è, infatti, di certo minimamente credibile che il latitante notoriamente più pericoloso e più ricercato d’Italia, abbia condiviso importantissimi segreti per Cosa nostra, ovvero non solo la sua collocazione ma anche i suoi spostamenti; le sue precarie condizioni di salute e le questioni di natura mafiosa sino a raccogliere il suo testamento ricevendo le direttive sul dopo con una persona non affiliata, solo perché ad essa legata affettivamente”.
E’ uno dei passaggi della motivazione della sentenza con cui il gup di Palermo ha condannato a 11 anni e 4 mesi, per associazione mafiosa, Laura Bonafede, la maestra di Campobello di Mazara, figlia del boss del paese, che per anni è stata sentimentalmente legata a Matteo Messina Denaro col quale ha avuto contatti fino a pochi giorni prima del suo arresto. Per il giudice è evidente come le condotte della donna non fossero “circoscritte e rivolte al singolo, ma – semmai – abbiano dato un contributo altamente qualificato, essenziale all’associazione mafiosa Cosa nostra in sé, in quanto servente un pericolosissimo capo e latitante”.
“Il contributo di Bonafede, infatti, non può in alcun modo rientrare (come ha richiesto la difesa) nel novero del favoreggiamento personale sia pure con l’aggravante mafiosa, – scrive – Trascendono il mero rapporto personale con Messina Denaro le condotte della maestra sono, dunque, più coerentemente riconducibili ad un apporto di carattere sistematico sorretto dalla piena consapevolezza del ruolo apicale rivestito dal boss nell’organizzazione mafiosa e della universalmente nota condizione di latitanza dello stesso, inevitabilmente funzionale all’attività illecita collettiva propria dell’associazione mafiosa”.
Sotto processo per favoreggiamento – la sentenza è attesa per marzo – c’è ora la figlia della Bonafede, Martina Gentile che il capomafia ha cresciuto come una figlia”. (Fonte Ansa)
Trapani – Il gup del Tribunale di Trapani ha archiviato definitivamente la querela per diffamazione dell’ex senatore e sottosegretario dell’Interno Antonio D‘Alì contro il giornalista Rino Giacalone.
Non c’è diffamazione, ha stabilito il giudice – Il giornalista aveva scritto articoli sui rapporti per cui poi è stato condannato.
D’Alì non aveva gradito gli articoli pubblicati nel 2021 sul mensile ‘S’ e sul quotidiano online ‘Alqamah.it’, sulla vicenda giudiziaria per cui è stato indagato e poi condannato a 6 anni, per concorso esterno in associazione mafiosa, anche per i suoi rapporti con i boss Francesco e Matteo Messina Denaro. Il giornalista è stato difeso dagli avvocati Donatella Buscaino e Giulio Vasaturo.
L’ex senatore Antonio D’Alì si era costituito nel procedimento con l’avvocato Valerio Vartolo
La Procura di Trapani aveva chiesto l’archiviazione del procedimento. D’Alì si era opposto lamentando che gli articoli fornivano una ricostruzione in chiave accusatoria dei fatti, affermando che era stata travalicata la continenza espressiva, e che la condanna definitiva nei suoi confronti era stata pronunciata in epoca successiva alla loro pubblicazione.
Il gup a ottobre 2023 ha accolto la tesi della procura perché “gli articoli costituiscono elaborazione fedele, coerente e accurata, degli atti giudiziari (…) il giornalista ha correttamente interpretato il tenore delle motivazioni giudiziarie, tant’è che molteplici passaggi degli atti sono stati correttamente richiamati al fine di non travisarne il significato e consentire al lettore di apprezzarne direttamente il contenuto” e nessun effetto distorsivo o allusivo può essere attribuito ai suoi scritti, rispettosi anche della continenza.
Valderice – Il 25 gennaio del 1983 a Valderice fu ammazzato per mano mafiosa un Servitore dello Stato il giudice GianGiacomo Ciaccio Montalto. Quella di Ciaccio Montalto è la storia di un magistrato onesto, di un magistrato che prima di tutti aveva capito dove colpire la mafia e i suoi solidali per vederla sconfitta, i soldi.
Oggi Valderice ha ricordato il sacrificio del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto, ucciso in una stradina della cittadina, mentre rincasava presso la sua abitazione.
La mafia di quegli anni di Ciaccio Montalto è la stessa di oggi. Una mafia che non spara più ma che si è infiltrata nelle istituzioni, nell’impresa, nelle banche come ai tempi di Ciaccio Montalto, che era andato a bussare alla porta di alcune di queste prendendosi e portandosi in ufficio gli assegni dei boss, i guadagni dei traffici di droga, delle raffinerie di eroina impiantate nel trapanese, degli appalti. La mafia che uccise Ciaccio Montalto è la stessa che oggi potente ha saputo proteggere il suo nuovo capo Matteo Messina Denaro. Nonostante le numerose minacce Ciaccio Montalto, non si arrese mai, continuando a lavorare con disciplina e rigore. Attualissime rimangono ancora ora le indagini di quel giudice che prima di essere ammazzato stava per essere trasferito a Firenze. Il giudice Ciaccio Montalto è una delle prime vittime eccellenti nel segno dell’aggressione voluta dal boss Totò Riina.