Alcamo – Turbolenta mattinata quella del 27 febbraio per gli operatori del Commissariato di Alcamo. Una semplice esecuzione di un provvedimento di detenzione domiciliare, misura alternativa alla detenzione in carcere, si è trasformata in momenti di tensione. Il provvedimento era stato emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Palermo nei confronti di un noto pregiudicato alcamese che doveva espiare un residuo di pena per i reati di evasione e lesione personali commessi nel 2017.
Il pregiudicato una volta convocato negli uffici del Commissariato di Alcamo per la redazione degli atti, all’improvviso, è andato in escandescenza, alzandosi e tentando di uscire dall’ufficio minacciando di morte e spintonando gli operatori di Polizia che lo hanno però bloccato. Sono stati vani i tentativi della madre e del fratello che erano presenti di riportarlo alla calma. Visto quanto stava accadendo e dopo avere sentito il Pubblico Ministero della Procura di Trapani, l’uomo è stato arrestato in flagranza di reato per resistenza a Pubblico Ufficiale e, dopo le formalità di rito, trasferito presso la Casa Circondariale di Trapani in attesa del processo per direttissima fissato per il giorno successivo.
Dopo la convalida dell’arresto lo stesso è stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari con applicazione del braccialetto elettronico. Tuttavia, alla luce di quanto accaduto il giorno precedente, l’Ufficio di Sorveglianza di Trapani aveva sospeso il primo provvedimento che disponeva la misura alternativa della detenzione domiciliare disponendo, nel contempo, che il condannato continuasse ad espiare la pena all’interno di in un istituto penitenziario. Così, il cittadino alcamese è stato nuovamente accompagnato presso il carcere di Trapani, rimanendo a disposizione dell’Autorità Giudiziaria.
Trapani – Sono proseguite ieri le arringhe nell’aula del Tribunale di Trapani dove è giunto al momento della discussione il processo scaturito dall’indagine dei Carabinieri del Reparto Operativo, denominata “Artemisia”. Nell’udienza di venerdì il pm Sara Morri ha concluso chiedendo le condanne per sedici dei diciassette imputati, per complessivi 155 anni di carcere. Subito dopo la parola è passata ai difensori che si sono cominciati ad alternare dinanzi al collegio presieduto dal giudice Franco Messina, a latere i giudici Bandiera e Cantone.
Oggi hanno concluso con una richiesta di assoluzione gli avvocati Roberto Tricoli e Massimiliano Miceli, difensori del commercialista Gaspare Magro, per il quale l’accusa ha chiesto otto anni per i reati di corruzione e di violazione della legge Anselmi, per la presunta partecipazione ad una associazione segreta. Magro avrebbe agito in accordo con il politico Giovanni Lo Sciuto, per l’accusa deus ex machina di un cerchio magico che avrebbe agito inquinando istituzioni e pubblica amministrazione, fin dentro l’aula parlamentare regionale dove sedeva da deputato, e con Paolo Genco, questi a capo di uno dei maggiori enti di formazione professionale, l’Anfe. Magro, che è risultato far parte della massoneria, dalla quale però poi si sarebbe allontanato, mettendosi come suol dirsi “in sonno”, auto sospeso insomma, avrebbe ottenuto anche l’incarico di componente del collegio dei revisori dei conti dell’Asp, in quota all’on. Lo Sciuto. Ma su questo punto l’arringa dell’avvocato Tricoli ha cercato di smontare la tesi d’accusa, evidenziando che quella nomina venne decisa dall’allora ministro della Sanità Lorenzin, e che risulta frutto dell’indicazione dell’allora senatrice Simona Vicari. Per Tricoli questo sarebbe già sufficiente per dimostrare l’assenza di intese tra Lo Sciuto e Magro: “in una intercettazione – ha evidenziato Tricoli – è possibile ascoltare Lo Sciuto che su questa nomina si sente scavalcato…se tra i due ci fosse stata intesa queste parole non le avremmo ascoltate”. L’avvocato Tricoli ha anche escluso rapporti di dipendenza tra Magro e l’Anfe, “svolgeva semmai incarichi di consulenza nemmeno direttamente affidati, ma semmai assegnati allo studio dove Magro lavorava”. Il difensore ha più volte sottolineato la stura professionale di Magro, “notoriamente apprezzata” e quindi “l’ingiusta accusa”. “Le risultanze processuali – ha aggiunto a sua volta l’avvocato Miceli – dicono altro – Mago si è sempre mosso nel rispetto della legge”. Sui comportamenti dell’on. Lo Sciuto che possono aver coinvolto Magro, Miceli ha riconosciuto che “si è potuto trattare di una politica clientelare, ma giammai una violazione di legge”. E infine sulla presunta partecipazione ad una associazione segreta, l’avv. Miceli ha ritenuto che “di segreto non c’era nulla e l’associazione creata da Lo Sciuto, esisteva grazie ad un atto finanche registrato all’agenzia delle Entrate”. I due difensori poi parecchio si sono soffermati sulle decisioni pregresse assunte durante l’istruttoria dal Tribunale del Riesame e dalla Cassazione, intervenuti sulla misura cautelare. modificandone il contenuto, ma su questo lo stesso pm aveva evidenziato che nello sviluppo delle indagini quelle decisioni non trovavano più sostegno.
L’avvocato Paolo Paladino è a sua volta intervenuto, anche lui con una richiesta di assoluzione, sulla posizione dell’ex assessore comunale di Castelvetrano Luciano Perricone, per il quale l’accusa ha chiesto due anni e sei mesi per partecipazione ad associazione segreta. “L’istruttoria processuale – ha sostenuto l’avvocato Paladino – ha determinato la sottrazione di elementi d’accusa, siamo stati in presenza di una erosione continua delle prove fornite dal pm al Tribunale”. “Quelli con l’on. Lo Sciuto erano rapporti personali che non sfociavano in altro, l’associazione segreta presuppone la creazione di un contro potere, fattispecie che non investe il Perricone che si è sempre posto lontano da interferenze”. anzi, l’avvocato Paladino ha messo in evidenza l’azione politica di Perricone “che da consigliere comunale fu artefice dell’autoscioglimento del Consiglio comunale di Castelvetrano all’esplodere del cosiddetto caso Giambalvo”, il consigliere comunale finito indagato per suoi presunti rapporti con l’allora latitante Matteo Messina Denaro.
Di debolezza dell’accusa ha parlato invece l’avvocato Gianni Caracci, difensore del poliziotto, in servizio alla Dia, Salvatore Virgilio, per il quale il pm ha chiesto la condanna a sette anni e sei mesi per i reati di corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio. Dinanzi all’accusa che Virgilio sarebbe stata una “talpa”, l’avvocato Caracci ha chiesto l’assoluzione insistendo sulla “debolezza dell’accusa…le conversazioni smentiscono le colpe attribuite”.
Ultimo a intervenire nell’udienza odierna è stato l’avvocato Maurizio Sinatra difensore di Giuseppe Angileri e Maria Luisa Mortillaro, per i quali il pm ha chiesto condanne rispettivamente a sette anni per il primo e due anni e una multa di 1500 euro per la seconda. Angileri è accusato di corruzione e truffa, quest’ultimo reato contestato anche alla Mortillaro. I due avrebbero avuto un ruolo nell’entourage dell’on. Lo Sciuto, di mezzo una docenza che la Mortillaro avrebbe dovuto avere nei corsi di formazione dell’Anfe e una assunzione (fittizia) come portaborse del politico quando era deputato all’Ars. “Non c’è stato alcuno scambio di utilità – ha sostenuto l’avvocato Sinatra – perché la Mortillaro non poteva essere assunta all’Anfe in quanto esclusa dall’elenco dei docenti e per questa ragione aveva intentato contenzioso contro l’assessorato regionale…la Mortillaro è estranea anche all’assunzione come portaborse, è provato che l’on. Lo Sciuto apponeva firme false e lo avrebbe fatto anche nel contratto di assunzione e nella successiva lettera di dimissione della Mortillaro”. Ancora l’avvocato Sinatra ha escluso che la sua assistita fosse a conoscenza di quella assunzione, “le uniche pezze giustificative sono rappresentate da un rimborso spese che l’ars ha elargito direttamente a Lo Sciuto e giammai alla Mortillaro, è notorio – ha proseguito – che i portaborse vengono pagati dal deputato e non attraverso la tesoreria del Parlamento”. A proposito dei soldi ricevuti da Angileri il legale ha evidenziato che si trattava di un rimborso che l’on. Lo Sciuto gli doveva per la organizzazione di conviviali a Marsala. “Se fosse vera la ricostruzione dell’accusa e cioè che quel denaro era legato all’assunzione come portaborse della Mortillaro, siamo in presenza per la prima volta di un pagamento anticipato, considerato che i soldi vengono consegnati a dieci giorni dalla data di assunzione, assunzione – ha ripetuto il legale – della quale Angileri e la Mortillaro non sapevano assolutamente nulla”.
Trapani – L’atto finale del pm Sara Morri davanti al Tribunale presieduto dal giudice Messina , a latere i giudici Bandiera e Cantone. Dopo una minuziosa ricostruzione dei fatti oggetto del processo, riportati dentro una memoria di quasi mille pagine, l’accusa ha chiesto condanne per 155 anni di carcere. Il processo Artemisia ha messo in luce condotte di corruttela col fine di acquisire consenso elettorale. Questa la mira di Giovanni Lo Sciuto politico di lungo corso, deputato regionale alla corte del ministro Angelini Alfano , accusato anche di aver creato una sorta di loggia massonica segreta.
Per Lo Sciuto sono stati chiesti 14 anni. Nove anni per l’ex re della formazione professionale Paolo Genco, otto anni per Gaspare Magro, sei anni per l’ex sindaco di Castelvetrano Felice Errante, sette anni per Gaspare Angileri, due anni per Maria Luisa Mortillaro, sei anni e sei mesi per Isidoro Calcara, nove anni e sei mesi per l’ex coordinatore Inps Rosario Orlando, sei anni per Tommaso Geraci, due anni e sei mesi ciascuni per Vincenzo Chiofalo, Gaspare Berlino e Luciano Perricone. Otto anni sono stati chiesti per Vincenzo Passanante, sette anni e sei mesi per Salvatore Virgilio, sette anni per Vincenzo Giammarinaro, undici anni per Salvatore Giacobbe.
Il quadro offerto quello dell’esistenza di una articolata associazione a delinquere e creazione di una associazione segreta. Tutti gli imputati avrebbero partecipato ad un sistema che agiva con la corruzione, e che puntava ad inquinare la politica.
In aggiornamento
Marsala – Il Tribunale, presidente Vito Marcello Saladino, accogliendo la tesi difensiva (avvocato Piero Marino) e condannando a dieci anni di carcere il ventenne di Petrosino, Vincenzo Piero Li Vigni per il “pestaggio” di un giovane disabile marsalese nei pressi di un distributore automatico di sigarette in contrada Terrenove, lungo la statale 115 per Mazara.
Furono lesioni personali gravi, non tentato omicidio.
Vincenzo Piero Li Vigni, nella notte tra il 14 e il 15 giugno, insieme ad un minore, per il quale ha proceduto la Procura dei minorenni di Palermo, aggredì con calci e pugni un 33enne, Davide Russo, scambiandolo per un presunto molestatore della sorella. Li Vigni è rinchiuso in carcere il 17 giugno 2023.
Tre i reati contestati: tentato omicidio, rapina aggravata impropria (per avere sottratto le chiavi dell’auto alla vittima) ed evasione dagli arresti domiciliari (all’epoca, infatti, l’imputato era ai domiciliari con l’accusa di avere esploso alcuni colpi d’arma da fuoco). Li Vigni, oltre che per lesioni gravi, è stato condannato anche per la rapina impropria e l’evasione dai domiciliari. Subito dopo il fatto, i carabinieri identificarono i due protagonisti del pestaggio grazie alle immagini di una telecamera di sorveglianza che riprese l’intera scena.
Calatanissetta – Il Tribunale di Caltanissetta ha condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. a corrispondere una somma pari a 2.759.889,59 di euro, in favore di una società del nisseno che, all’epoca dell’instaurazione del giudizio operava nel settore delle pulizie industriali.
La condanna è stata pronunciata a risarcire i danni occorsi alla società a causa di un illegittimo protesto elevato ai danni della società, nel mese di settembre 2020, e relativo ad una cambiale di appena 2.600 euro, domiciliata presso la Filiale MPS di Caltanissetta che aveva provveduto a far protestare la società, nonostante alla data fissata per la scadenza della cambiale, la società correntista detenesse sul proprio conto corrente circa 200 mila euro.
L’ingiusto protesto aveva comportato la perdita, da parte della società nissena, di un appalto bandito dall’Asl di Napoli dal valore pari ad oltre centododici milioni di euro, di cui la stessa era già risultata aggiudicataria unitamente ad altra società, con cui aveva costituito un R.T.I.. A causa del protesto, quest’ultima non era riuscita ad ottenere il rilascio, da parte del ceto bancario ed assicurativo, di una fideiussione di considerevole valore, che era stata richiesta dalla stazione appaltante, a pena di decadenza dalla commessa. E così, la società nissena era stata estromessa dall’appalto che è integralmente rimasto in capo all’altra componente del R.T.I. in precedenza costituito.
Ritendo ingiusto il danno patito come conseguenza dell’illegittimo protesto, la società si è rivolta allo “Studio Legalit Avvocati Associati”, avvocati Giovanni Puntarello e Sabrina Causa, per ottenere il risarcimento del pregiudizio economico patito.
Secondo le tesi prospettate in giudizio dagli avv.ti Puntarello e Causa, “la levata del protesto in oggetto risultava imputabile alla summenzionata Banca, che, alla data di scadenza della cambiale, non aveva provveduto al relativo pagamento, pur essendo onerata a processarlo e ad eseguirlo direttamente. Un simile onere, sempre in base a quanto sostenuto dai detti legali, gravava sulla Banca, in quanto titolare di apposito mandato di pagamento, come comprovato tanto dalla domiciliazione della cambiale, quanto dalla circostanza che, sul conto corrente detenuto dalla società nissena presso la Filiale MPS di Caltanissetta, fosse presente una considerevole provvista”.
La tesi era stata poi sposata nella fase decisionale del giudizio, dalla curatela della liquidazione giudiziale della società in questione, in persona degli Avv.ti Francesco Costa e Fabio Giorgio che hanno aderito alle difese degli Avv.ti Giovanni Puntarello e Sabrina Causa, pienamente condivise anche dal Tribunale di Caltanissetta che, in considerazione di ciò, ha condannato MPS al pagamento di un risarcimento di quasi tre milioni di euro.
In particolare, il Tribunale di Caltanissetta ha condiviso l’intera prospettazione degli Avv.ti Puntarello e Causa, ritenendo di accordare il risarcimento dei danni patrimoniali subiti dalla società del nisseno, liquidati in una misura corrispondente al 5 per cento del valore dall’appalto in questione.
Palermo – Il Tribunale ha annullato il decreto di sequestro preventivo pari a 3,4 milioni di euro di Tele Rent. Il Tribunaleha infatti accolto il riesame depositato dagli avvocati Vincenzo Giacona Venuti e Mattia Caleca ed ha orindato la restituzione dei beni all’imprenditore Paolo Raffa.
All’accoglimento del ricorso proposto da Raffa segue anche la restituzione di quanto in sequestro alla società che gestisce l’emittente, assistita dall’ avvocato Raffaele Bonsignore. “Siamo soddisfatti del risultato raggiunto – dicono i legali. Un altro importante tassello che si aggiunge al rigetto della richiesta di applicazione degli arresti domiciliari ottenuto la settimana scorsa”.
Il gip di Palermo Maria Cristina Sala ha accolto la tesi degli avvocati Vincenzo Giacona Venuti e Mattia Caleca e rigettato la richiesta del Pm di applicazione della misura degli arresti domiciliari per Paolo Raffa, presidente del consiglio di amministrazione di Telerent.
“Siamo soddisfatti di questo primo risultato – dicono ancora gli avvocati – ma soprattutto dell’efficienza del nuovo strumento dell’interrogatorio di garanzia preventivo introdotto con la riforma del ministro Nordio, che ha permesso di esporre preventivamente l’assenza di esigenze che giustificassero il ricorso ad una misura grave come quella degli arresti domiciliari. Ci sarà il tempo per dimostrare anche la correttezza dell’operato di Telerent sotto la gestione del nostro assistito”.
Era stata la Guardia di finanza di Palermo, su richiesta della Procura, che nelle scorse settimane aveva eseguito un sequestro preventivo di 3,4 milioni di euro nei confronti dell’emittente televisiva locale. L’accusa: frode aggravata ai danni del Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, che eroga contributi pubblici alle televisioni locali.
Dalle indagini effettuate dalle fiamme gialle sarebbe emerso che: tra il 2016 e il 2023 l’emittente avrebbe dichiarato un numero di dipendenti, inclusi giornalisti, non corrispondente alla realtà. Tra questi figuravano anche parenti del legale rappresentante, i quali, stando agli investigatori, sarebbero stati assunti solo formalmente, senza svolgere attività lavorativa concreta.
Le assunzioni fittizie, nella tesi accusatoria, avrebbero avuto l’unico scopo di rispettare i requisiti necessari per accedere ai contributi pubblici, che ammontano complessivamente a oltre 4,1 milioni di euro, di cui 3,4 milioni già erogati, sequestrati e ora restituiti. Telerent fu fondata nel 1984 da Paolo Raffa, con sede inizialmente in viale Abruzzi, a Palermo, e successivamente in via Vann’Antò.
Messina – Dopo 4 anni di tribolazioni si chiude con una sentenza di assoluzione la vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto un imprenditore del messinese.
L’uomo, aveva conosciuto su un social network una donna di origini sudamericane con la quale aveva avviato una relazione sentimentale dopo che la stessa si era trasferita in Italia con il figlio. Ad un certo punto però l’uomo decide di interrompere il rapporto, questa decisione però, scatenò la reazione della donna che lo denunciò per presunti ripetuti maltrattamenti e vessazioni, anche a sfondo sessuale e per lesioni personali e violenza privata.
Per questi fatti un imprenditore dei Nebrodi fu arrestato nel 2020 e posto ai domiciliari.
Ora l’uomo è stato assolto dalle accuse, perché il fatto non sussiste, con sentenza pronunciata dal Giudice del Tribunale di Patti Giovanna Ceccon.
Nel dibattimento il difensore dell’imputato, avvocato Massimiliano Fabio, ha delineato i contorni della vicenda evidenziando la contraddittorietà ed inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa e rappresentando come fosse invece l’uomo stesso a subire una “relazione tossica”, sottoposto alle mire della donna. Rispetto all’unico episodio riferito, quello della presunta aggressione, è stata quindi evidenziata l’assenza di riscontri e con testimonianze addirittura opposte alle dichiarazioni rese dalla parte offesa.
Fu l’uomo ad essere oggetto di aggressione dopo essere stato raggiunto dalla donna, tanto da aver egli stesso chiesto aiuto ad alcune persone presenti nelle vicinanze e sollecitato l’intervento dei Carabinieri.
A conclusione del processo, nel quale il pubblico ministero aveva chiesto la condanna a tre anni e sette mesi di reclusione, l’uomo è stato assolto perché il fatto non sussiste dall’imputazione relativa ai maltrattamenti mentre per le ipotesi di lesioni personali e violenza privata, è stato disposto il non luogo a procedere per remissione di querela.
«Possiamo ritenerci ampiamente soddisfatti perché il giudizio ha ristabilito la verità dei fatti e chiarito l’estraneità dell’imputato rispetto alle gravi contestazioni a lui mosse – sottolinea l’avvocato Massimiliano Fabio –. Accuse per le quali il mio assistito ha dovuto patire periodi di profondo turbamento che ne hanno condizionato la vita quotidiana e le molteplici attività imprenditoriali».
Castelvetrano – Il Gip del Tribunale di Marsala, Sara Quittino ha revocato la misura dell’obbligo di soggiorno all’ex consigliere comunale di “Castelvetrano Giovani” Antonio Giancana.
Giancana nei mesi scorsi era rimasto coinvolto nell’indagine a carico dell’ex senatore alcamese Antonino Papania e di altri componenti del movimento politico “Via”. La decisione del Gip è arrivata dopo l’istanza presentata dagli avvocati Franco e Chiara Messina
Al centro dell’indagine ci sarebbe un’intercettazione telefonica con un responsabile del movimento politico vicino a Papania, questi prospettava la possibilità per un paio di giovani quali tutor per la formazione professionale CE.SI.FO.P., invitando il Giancana ad aderire al movimento VIA e a partecipare alla campagna elettorale regionale, profilandosi un presunto reato di tentativo di corruzione del pubblico ufficiale all’epoca consigliere comunale.
L’accusa ipotizza una promessa corruttiva con contestazione dell’art. 318 c.p. al giovane consigliere comunale Giancana, desumendola dal tenore di una conversazione telefonica non riscontrata fattualmente, poiché egli: “Non ha mai aderito al movimento politico VIA”; Non ha mai avuto alcun incarico all’ente di formazione professionale CE.SI.FO.P.; Non ha mai offerto alcun sostegno elettorale alle ultime competizioni elettorali regionali; Non è stato mai coinvolto in precedenti provvedimenti giudiziari; Non è più consigliere comunale dal giugno 2024.”
Alcamo – Fissata per il prossimo 25 febbraio alle 9,30, davanti al tribunale di Palermo, l’udienza preliminare per decidere sulle 13 richieste di rinvio a giudizio nell’ambito dell’operazione Eirene, condotta dalla squadra mobile di Trapani e coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Tra gli indagati di spicco l’ex senatore Nino Papania e l’ex vicesindaco di Alcamo Pasquale Perricone.
Il pm Piero Padova ha chiesto il processo per 13 degli indagati coinvolti nel blitz antimafia accusati a vario titolo di: associazione mafiosa, estorsioni, traffico di droga e scambio elettorale politico-mafioso.
Secondo gli inquirenti, l’ex senatore Papania, attualmente in carcere, si sarebbe accordato con Di Gregorio, attraverso la mediazione di Perricone, per ottenere voti alle elezioni regionali del 2022 a favore di Angelo Rocca, coordinatore provinciale del movimento politico Via, fondato dallo stesso Papania. In cambio, il capomafia avrebbe ricevuto un compenso economico.
In carcere è finito l’ex senatore del Pd Antonino Papania, 65 anni, fondatore del movimento politico “Via”, accusato di scambio elettorale politico-mafioso.
Arrestato anche l’ex vice sindaco di Alcamo, Pasquale Perricone, 69 anni: sarebbe stato l’intermediario fra Papania e il clan mafioso di Alcamo.
Il blitz portato a termine nel trapanese ha svelato le complicità tra politici e mafia scoperto i volti dei nuovi reggenti delle famiglie mafiose di Alcamo e Calatafimi ed una serie di estorsioni consumate o tentate tra: Castellammare del Golfo, Alcamo e Trapani.
L’operazione è la conclusione di una inchiesta avviata nel maggio del 2021 e che ha riguardato anche aspetti legati alla latitanza dell’ormai defunto Matteo Messina Denaro, indagine che negli anni si è ulteriormente aggiornata. Una inchiesta che ha consentito di documentare gli assetti e il rinnovato dinamismo criminale delle “famiglie” mafiose di Alcamo e Calatafimi, dopo l’arresto di numerosi esponenti storicamente al vertice delle stesse cosche. Ed è in questo contesto che la famiglia mafiosa alcamese avrebbe individuato il nuovo vertice in un pregiudicato locale, Francesco Coppola; mentre la cosca di Calatafimi, ha affidato il ruolo di reggente a Salvatore Li Bassi, allevatore pure pregiudicato.
Le certosine indagini di questi anni da parte degli investigatori, hanno consentito anche di ricostruire tutta una serie di estorsioni alcune consumate altre solo tentate, ai danni di imprenditori locali.
Ma l’inchiesta ha anche accertato una fiorente attività di spaccio, condotta anche grazie all’apporto di fornitori albanesi, ed anche la certezza che la cosca fosse nelle condizioni di avere armi, evidenziando così la trasversalità e la caratura criminale dei sodali.
Pescara – Un uomo di 48 anni di Pescara ha recentemente fatto una scoperta che ha cambiato il corso della sua routine quotidiana: durante i lavori di riordino della casa dei suoi genitori, venuti a mancare a causa del Covid, ha trovato un ingente somma di denaro nascosta in una vecchia credenza della cucina. 205 milioni di lire, divisi in banconote da 50 e 100 mila lire, un valore che oggi equivalerebbe a oltre 100 mila euro.
Tuttavia, il sogno di trasformare quel “tesoretto” in euro si è infranto quando l’uomo ha cercato di convertirli. Dopo essersi rivolto alla Banca d’Italia, ha ricevuto la risposta che temeva: non era più possibile cambiare le lire. La conversione non è più valida, essendo trascorsi oltre dieci anni dall’entrata in vigore dell’euro nel 2002, secondo le normative stabilite dalla Banca d’Italia.
In un contesto simile, in altre città italiane, episodi analoghi sono emersi, come quello di un uomo che ha trovato oltre 150 milioni di lire a Genova, e un altro a Frosinone che ha scoperto titoli di Stato da un miliardo di lire, ma anche in questi casi non è stato possibile procedere con la riscossione.
Ma l’uomo non si è dato per vinto e ha deciso di intraprendere una causa legale per ottenere la conversione. Si è rivolto a uno studio legale specializzato nella conversione della lira in euro, con l’obiettivo di ottenere il cambio forzato attraverso un’istanza al Tribunale Ordinario di Roma.
Il legale che lo rappresenta ha fatto riferimento all’articolo 2935 del codice civile, il quale stabilisce che la prescrizione del diritto di rivalsa non scatta immediatamente con l’entrata in vigore dell’euro, ma da quando la persona può effettivamente esercitare il suo diritto. In questo caso, il diritto si sarebbe concretizzato nel 2024, quando l’uomo ha ritrovato il denaro.
La causa legale è appena iniziata e l’obiettivo è sensibilizzare la politica, cercando di ottenere una revisione della normativa per consentire ai cittadini di poter riscattare i soldi trovati, pur dopo tanti anni dal passaggio all’euro.
Questo caso solleva non solo un’interessante questione legale, ma anche una riflessione sul valore della memoria storica e sulla gestione dei cambiamenti monetari in un mondo sempre più digitale, dove le transazioni avvengono senza il bisogno di moneta fisica.