“Trapani e i trapanesi, sono parte civile! Nel corso della mia vita, ligio ai valori familiari trasmessimi, come mi ha insegnato mio padre, la verità non è mai stata oggetto di scambio perché non ha prezzo! Per difendere la verità e far valere la giustizia sul malaffare non bisogna mai abbassare gli occhi o “baciar mani” .
A Trapani, per molto tempo, tanti amministratori e non solo hanno preferito girarsi dall’altra parte e far finta di non vedere, di tacere quando, addirittura, non sono stati financo conniventi rispetto ai loschi affari perpetrati ai danni della città e dei suoi cittadini.
Insomma il quieto vivere ha fatto comodo tanto a certa politica quando ai comitati d’affari. Con l’alluvione del settembre ed a seguire ottobre del 2022, con le indagini approfondite sulle cause ed effetti – al netto delle mutazioni meteo climatiche – ho avuto modo di comprendere che uno dei sistemi naturali di smaltimento delle acque piovane, da monte a valle, era legato alla naturale funzionalità del cd canale Scalabrino.. tombato a seguito di piani di lottizzazione e correlate opere.. aggravando la gia’ precaria vulnerabilità della città di Trapani che, come è noto, risulta di pochi metri sopra il livello del mare e, in alcuni punti, a livello del mare.
Rendere noto e pubblico tanto e’ diffamazione? Il quesito sarà posto ed oggetto di approfondimento nelle opportune sedi giudiziarie. Di certo se in questa vicenda c’è un reato in quel reato le persone offese sono i cittadini trapanesi che hanno supinamente subito il sacco edilizio della loro città”. Giacomo Tranchida sindaco di Trapani
Roma – “Bisogna aprire i palazzi di Giustizia, non chiuderli. I cittadini devono conoscere ciò che accade nei processi: alzare muri impedendo la conoscenza dei motivi per i quali una persona viene arrestata costituisce un pericolo significativo”.
Lo ha dichiarato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, intervenendo al convegno dal titolo “Giustizia. Informazione a rischio –Tutte le criticità introdotte dalle nuove norme”, organizzato a Roma, lo scorso 13 gennaio, dall’Ordine nazionale dei giornalisti, e introdotto dal presidente del Cnog, Carlo Bartoli, nel corso del quale si è discusso anche della recente riforma dell’articolo 114 del Codice di procedura penale, entrata in vigore lo scorso 7 gennaio, in base alla quale non è più consentito riportare il contenuto delle ordinanze cautelari, se non per riassunto. Santalucia ha ricordato che il processo è pubblico e che durante le indagini preliminari il segreto è funzionale a garantire lo sviluppo delle indagini stesse: se non ha più questo scopo non ha ragione di essere.
“Il legislatore deve fare un bilanciamento degli interessi in gioco, libertà di stampa da una parte, diritto alla riservatezza dall’altro”, ha proseguito Santalucia rilevando come in questo momento vi sia uno sbilanciamento a favore del secondo. “Il processo mediatico deve essere evitato, ma non attraverso limitazioni e divieti; piuttosto attraverso la valorizzazione di comportamenti rispettosi della deontologia”.
Le crescenti difficoltà che i giornalisti incontrano nel poter informare correttamente e compiutamente i cittadini su quanto accade nei Palazzi di giustizia, anche a seguito dell’entrata in vigore del decreto Cartabia sulla presunzione d’innocenza, sono state ricordate dal coordinatore del Gruppo Informazione e giustizia del Cnog, Gianluca Amadori, il quale ha ricordato cosa scriveva nel 1997 l’allora pm Carlo Nordio, rivendicando il diritto dei giornalisti di dare informazioni in modo ampio sull’attività giudiziaria: “Spiace che ora, diventato ministro, abbia cambiato idea”.
Il giornalista del Corriere della Sera, esperto cronista di giudiziaria, Giuseppe Guastella, ha dichiarato che “è assurdo vietare di riportare virgolettati tratti dalle ordinanze di custodia cautelare, obbligando il giornalista ad interpretarle, con il rischio di essere poi querelato perché non ha riportato correttamente le motivazioni di un arresto”.
Il professor Vittorio Manes, autore di un volume sul processo mediatico, in cui denuncia l’eccessiva spettacolarizzazione di una parte dell’informazione giudiziaria, con gravi danni per la reputazione delle persone, ha sostenuto che l’attuale equilibrio tra privacy e diritto all’informazione “non è soddisfacente, a danno della prima, come dimostrato dai ripetuti interventi del legislatore negli ultimi anni. La narrazione, in particolare durante le indagini preliminari è a senso unico a favore delle tesi dell’accusa: il giornalista dovrebbe avere una posizione più critica, dando voce anche alla difesa”, ha auspicato il noto avvocato penalista, confidando in una sempre maggiore consapevolezza da parte dei professionisti dell’informazione della necessità di maneggiare con cautela il materiale giudiziario. Le intercettazioni innanzitutto, che una volta pubblicate si trasformano da “mezzo di ricerca della prova, in una prova vera e propria, rendendo la persona coinvolta in un’indagine penale un colpevole in attesa di giudizio, alla faccia della presunzione d’innocenza”.
Ma anche secondo Manes, da sempre critico sugli eccessi dell’informazione, la strada non è quella dei divieti o delle limitazioni alla stampa. “La questione è di carattere culturale – ha dichiarato – per arrivare ad un’informazione che eviti toni sensazionalistici, non trascuri la versione difensiva, che si astenga dal divulgare dati sensibili”.
La professoressa Marina Castellaneta dell’Università di Bari, esperta in diritto internazionale e libertà di informazione, ha ripercorso lo scenario di norme e giurisprudenza europee a sostegno della libertà di informazione, sostenendo che il decreto 188/2021 sulla presunzione d’innocenza di fatto limita la possibilità dei giornalisti di raccontare ciò che accade nei palazzi di Giustizia esorbitando i confini della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, che non si occupa della stampa e fornisce prescrizioni unicamente alla pubblica amministrazione, obbligandola a non indicare come colpevole una persona prima della sentenza definitiva. Castellaneta ha parlato anche della proposta di riforma del reato di diffamazione con la possibile introduzione di sanzioni pecuniarie spropositate (fino a 50 mila euro) al posto delle pene detentive “bocciate” dalla Corte costituzionale: “Sanzioni eccessive per punire la diffamazione sono state definite dalla Cedu non compatibili con la Convenzione europea in quanto producono il cosiddetto “chilling effect”, ovvero impedendo ai giornalisti di esercitare liberamente il compito di informare la collettività”.