Palermo – I militari del GICO della Guardia di Finanza di Caltanissetta, su delega della locale DDA, hanno compiuto alcune attività di ricerca e acquisizione documentale alla sede di Palermo.
Nel corso delle attività, disposte, come detto dalla DDA nissena è stato finalmente possibile ritrovare i brogliacci delle intercettazioni effettuate negli anni ’90 circa le infiltrazioni di Cosa Nostra nel settore imprenditoriale e, in particolare, nelle aziende già appartenenti al Gruppo Ferruzzi.
I brogliacci sono stati rinvenuti in quattro buste di colore giallo ancora recanti i timbri della Guardia di Finanza apposti nel 1992, ricoperti di polvere e lasciati a terra in archivi da tempo non utilizzati. Il ritrovamento dei brogliacci è stato ottenuto al termine di ricerche durate più di due anni e che hanno comportato la consultazione di più di 2000 faldoni con centinaia di migliaia di pagine di documenti.
Il contenuto dei brogliacci è attualmente al vaglio delle Autorità inquirenti.
Negli ultimi anni l’inchiesta Mafia e appalti è tornata alla ribalta della cronaca. Da tempo l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, e i due ex alti ufficiali del Ros dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno indicano il dossier come il movente segreto detro l’eliminazione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Una tesi rilanciata negli ultimi mesi anche durante le audizioni in Commissione antimafia. E che esclude la cosiddetta “pista nera”, cioè quella che collega la strage di via d’Amelio alla strategia di destabilizzazione cominciata a Capaci.
Individuare Mafia e appalti come unico movente delle bombe ha anche un altro pregio: cancella quanto ipotizzato in alcune inchieste poi archiviate. Come per esempio le indagini che legano la morte di Borsellino a informazioni che lo stesso magistrato poteva aver avuto sui legami tra Cosa Nostra e l’entourage di Silvio Berlusconi.
Mafia e appalti è l’indagine alla base dell’antica frattura che – tra veleni e fughe di notizie – ha contrapposto il Ros ai pm di Palermo. La principale contestazione avanzata dai carabinieri e rilanciata da Trizzino è che i pm archiviarono l’inchiesta sui legami tra boss e imprenditori dopo aver arrestato solo 7 persone. Borsellino, però, era molto interessato a quell’indagine: è per questo motivo che sarebbe stato assassaninato. Il rapporto del Ros, sempre secondo la tesi di Mori e Trizzino, venne dunque insabbiato.
Roma – di Davide Mattiello – L’esibizione della borsa semi carbonizzata del giudice Paolo Borsellino nel “transatlantico” di Montecitorio mi turba profondamente: non riesco a non pensare che sia l’ennesima mossa spettacolare della strategia posta in essere da questa destra spudorata, intenta a riscrivere la storia.
Lo scrivo col rispetto che sento non soltanto per la borsa in se’ che è sacra reliquia di un gigantesco sacrificio umano, ma per i famigliari del magistrato, per il Presidente della Repubblica e per la Camera dei Deputati, cuore della nostra ormai pallida democrazia. Ma se è vero che ogni depistaggio che si rispetti muove sempre da pezzi di verità, adoperati in maniera deformata e deformante, è altresì vero che ogni operazione revisionista, che è una forma sofisticata di depistaggio, deve incardinarsi su elementi di verità e di sincera, collettiva, emozione proprio come quelli alimentati dalla borsa del giudice.
Infatti non è possibile non riflettere sulla circostanza che questa esposizione consenta di spostare ancora una volta l’attenzione dell’opinione pubblica dalle gravi accuse mosse dalla puntata di Report di una settimana fa relative alle ipotizzate manovre del gen. Mori di abusare della Commissione parlamentare anti mafia ed in particolare della strage di Via D’Amelio volte a realizzare il proprio piano di vendetta contro coloro che, soprattutto i magistrati della Procura di Palermo, lo hanno indagato e processato per anni ovvero di spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dall’inaccettabile silenzio accondiscendete della Presidente Colosimo a seguito delle deprecabili esternazioni di Giuseppe De Donno e di Mario Mori in Commissione anti mafia, con le quali esibivano sempiterna stima per quel galantuomo di Dell’Utri e disprezzo totale per i magistrati di Palermo, dopo essere stati messi davanti alle intercettazioni delle telefonate tra De Donno e Marcello Dell’Utri e De Donno e Mori.
Grida vendetta, più di Mori, il corto circuito vergognoso tra la simpatia manifestata verso Marcello Dell’Utri e le parole precise, ancorche misurate dal doveroso riserbo per indagini in quel momento in corso, di Paolo Borsellino intervistato il 21 Maggio del 1992 da Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo per la francese Canal Plus, proprio sui rapporti tra Vittorio Mangano, gran mafioso di collegamento tra Milano e Palermo, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
Non è possibile non riflettere sulla circostanza che l’inaugurazione della macabra esposizione arrivi pochi giorni dopo la clamorosa operazione della procura di Caltanisetta che ha mandato a perquisire le case del defunto Tinebra, predecessore dell’attuale capo De Luca, alla ricerca dell’agenda rossa del giudice Borsellino, sulla base di un appunto riferibile niente meno che ad Arnaldo La Barbera, defunto anch’egli e da molti più anni. Un’operazione che, tra l’altro, aiuta una volta di più a far dimenticare che in quei drammatici istanti succeduti all’esplosione in via D’Amelio una delle mani che sicuramente afferrarono la borsa fu quella di un carabiniere, il capitano Arcangioli.
Un’operazione che probabilmente ha puntato tutto su una coppia di illustri defunti perché soltanto i morti possono ancora essere colti di sorpresa da una indagine che è stata bruciata a reti unificate due mesi fa, pur di far sapere istantaneamente a tutto il globo terraqueo che Michele Prestipino, al tempo procuratore aggiunto della Direzione Nazionale Anti mafia, fosse andato a pranzo con Gianni De Gennaro e Franco Gratteri a chiacchierar di Ponte sullo Stretto, cantieri e infiltrazioni mafiose. Pare per altro che per gli interrogatori a carico di Tinebra e La Barbera siano frenetiche le ricerche del tavolino adoperato nel ’78 per indimenticate sedute spiritiche con finalità anti terroristiche.
Non è possibile non riflettere sulla contraddizione evidente tra l’ossequio mostrato da questa destra nei confronti di Paolo Borsellino e l’attacco profondo portato alla giurisdizione ed al principio di legalità: l’abolizione del reato di abuso di ufficio, l’annacquamento di quello di traffico illecito di influenze, il taglio delle intercettazioni, la mortificazione della magistratura attraverso la riforma (in corso) del CSM, il tentativo di neutralizzare alcune procedure di prevenzione antimafia inserito notte tempo nel decreto Infrastrutture (per ora accantonato grazie ai rilievi del Quirinale), le modifiche al codice degli appalti in forza delle quali il 98% della spesa pubblica oggi è fatta con affidamento diretto e la catena opaca dei subappalti schiaccia in fondo la sicurezza e la dignità di chi lavora.
Chissà se qualcuno ha avvertito la Presidente Colosimo che la data scelta per la inaugurazione della esposizione, il 30 di giugno, coincide con l’anniversario della strage di Ciaculli del 1963, che diede la stura ai lavori della Prima Commissione parlamentare anti mafia, la quale seguì negli anni successivi ben altri percorsi, preparando non già la vendetta rancorosa di un ex generale dell’Arma, ma la più potente reazione dello Stato alla piaga del potere mafioso. Infine chissà se quella borsa in “transatlantico” produrrà in qualcuno l’effetto provocato da quello skateboard fatto correre per tutto il transatlantico dal regista Paolo Sorrentino in una delle scene più suggestive de Il Divo: anche se vi credete assolti, siete per sempre coinvolti.
*Articolo 21.org
Rita Atria: Il Coraggio di una Giovane Testimone di Giustizia
Rita Atria nacque il 4 settembre 1974 a Partanna, un piccolo paese della provincia di Trapani, in una famiglia legata ad ambienti mafiosi. Il padre, Vito Atria, era un boss locale ucciso in un regolamento di conti nel 1985. La morte del padre segnò profondamente Rita, spingendola a cercare giustizia al di fuori del codice mafioso dell’omertà.
Dopo la morte del fratello Nicola, anch’egli coinvolto in dinamiche criminali e assassinato nel 1991, Rita decise di rompere con il passato e di collaborare con la giustizia.
Rita Atria trovò una guida e una protezione in Paolo Borsellino, il magistrato che si occupava delle sue dichiarazioni. A soli 17 anni, decise di testimoniare contro i clan mafiosi della sua terra, offrendo informazioni preziose che contribuirono a far luce su diversi crimini.
Venne trasferita a Roma sotto protezione, vivendo in isolamento e sotto falsa identità. La sua vita cambiò radicalmente: da giovane di una famiglia mafiosa divenne testimone di giustizia, pagando un prezzo altissimo per la sua scelta.
Il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino venne ucciso nella strage di via D’Amelio. La sua morte fu un colpo devastante per Rita, che perse l’unico punto di riferimento rimastole. Sola, isolata e priva di protezione, il 26 luglio 1992, una settimana dopo la strage, si tolse la vita lanciandosi dal settimo piano del suo appartamento a Roma.
Rita Atria è diventata un simbolo della resistenza contro la mafia. La sua storia, a lungo ignorata, oggi viene ricordata come esempio di coraggio e ribellione contro un sistema di violenza e omertà. Il suo nome è associato a numerose iniziative antimafia, scuole, associazioni e movimenti che lottano per la legalità, in particolare in Sicilia e a Trapani, dove il suo sacrificio è sempre più riconosciuto.
A Partanna e in altre città siciliane, gruppi di attivisti continuano a portare avanti il suo messaggio, affinché nessun giovane si senta più solo nella scelta di opporsi alla mafia.
La storia di Rita Atria ci ricorda che la lotta alla mafia è anche una questione di scelte individuali e di coraggio. Il suo sacrificio non è stato vano, e il suo esempio continua a ispirare nuove generazioni nella battaglia per la giustizia e la verità.