Trapani, anni d’oro della gioventù, quando i pomeriggi si trascorrevano tra le vie del centro con pochi spicci in tasca e tanta voglia di scoprire il mondo. Uno dei luoghi di ritrovo più particolari era un piccolo negozio in via Cascio Cortese, un paradiso per chi amava i libri, i fumetti e le pubblicazioni di ogni genere. Qui si potevano acquistare volumi di seconda mano oppure scambiarne due per ottenerne uno. Un meccanismo semplice, ma geniale, che faceva la gioia di studenti squattrinati e lettori incalliti.
Il proprietario, un uomo dall’aria sempre disponibile, era un vero appassionato della carta stampata. Io, giovane lettore con una predilezione per la fantascienza e la storia, mi fermavo spesso a chiacchierare con lui, curioso di ascoltare i suoi aneddoti. E fu proprio in una di quelle conversazioni che mi raccontò della cosiddetta “cultura al metro“.
Mi spiegò che spesso entravano clienti con un foglietto in mano, dove avevano annotato con precisione le misure della loro libreria. L’obiettivo? Trovare enciclopedie e collezioni di libri che riempissero perfettamente lo spazio disponibile, senza minimamente curarsi del contenuto. L’importante era che stessero bene sugli scaffali e facessero bella figura, magari con dorsi dorati e titoli altisonanti.
Rideva mentre raccontava, ma nel suo sorriso c’era un pizzico di amarezza. “Questi sono i collezionisti di copertine,” mi disse. “Quelli che si preoccupano più dell’aspetto che della sostanza. Esistono da sempre e ancora oggi sono tra noi!”. Sono gli stessi, aggiunse, che leggono solo i titoli delle notizie e si sentono informati, senza mai andare oltre le prime righe di un articolo.
Con il tempo, quel negozio si trasferì in via Fardella, ma il ricordo di quei pomeriggi passati tra scaffali pieni di storie rimane vivo. Chissà quanti di voi, leggendo queste righe, stanno sorridendo ricordando quel posto e le persone che lo frequentavano.
E tu, lettore? Sei arrivato fino alla fine di questo racconto? Se sì, allora di certo non fai parte di quei “collezionisti di copertine“… e saprai trarre da questa storia la tua conclusione!
Scopri la leggenda del carruzzune a Trapani, il gioco spensierato che ha segnato un’epoca. Tra discese mozzafiato, estenuanti spinte…. e ingegno fai-da-te, un viaggio nostalgico nelle estati dei trapanesi
Il Ricordo Scatenato delle Corse Spericolate
Ci dispiace per il grande Renato Zero e la sua bellissima canzone Il Carrozzone, ma a Trapani ‘U ‘Carruzzune‘ era tutta un’altra cosa! Scopriamolo insieme, con lo spirito scanzonato di chi ricorda i vecchi tempi con un sorriso e un pizzico di nostalgia.
Mentre Renato cantava di vita, teatro e malinconia, a Trapani ‘u carruzzune’ era il vero protagonista delle estati scatenate e delle corse spericolate nei vicoli della città. Era l’emblema dell’ingegno e della sana incoscienza di noi ragazzi: quattro tavole di legno, un asse con due cuscinetti a sfera riciclati da chissà dove, e via, a tutta velocità giù per le discese!
Dimenticatevi i giochi elettronici, i tablet e i social: qui si parlava di arte, meccanica e un pizzico di follia. Il carruzzune non era solo un passatempo, era un rito di iniziazione. Ogni quartiere aveva i suoi piccoli ingegneri, esperti nel recuperare materiali di fortuna: assi di vecchi mobili, ruote di fortuna e chiodi arrugginiti che, contro ogni regola di sicurezza, reggevano il tutto.
La costruzione era un affare di gruppo, dove il più grande dirigeva i lavori e il più piccolo si prestava come cavia per il test di velocità. Le prime discese erano da brivido: niente freni, solo i piedi strisciati per rallentare e un’incredibile fiducia nella Madonna di Trapani!
Le discese più epiche avvenivano nelle strade in pendenza, tra urla, risate e ginocchia sbucciate. Vincere una gara di carruzzune non significava solo essere il più veloce, ma anche saper schivare i passanti, evitare di schiantarsi contro un marciapiede e soprattutto arrivare interi alla fine del percorso.
E se qualcuno si ribaltava? Nessun problema! Bastava una risata, una bottiglia d’acqua fresca e la promessa di costruire un carruzzune ancora più resistente per la prossima corsa.
Oggi i carruzzuni sono quasi scomparsi, sostituiti da smartphone e videogiochi. Ma chi ha vissuto quegli anni sa che niente può eguagliare l’adrenalina di una corsa senza freni, il vento in faccia e la sensazione di libertà assoluta.
Forse, un giorno, torneremo a vedere qualche bambino con un vecchio carruzzune scendere per le strade di Trapani, tra la curiosità dei turisti e lo sguardo complice di chi, in fondo, non ha mai smesso di essere un ragazzo.
Perché, diciamocelo, Renato Zero aveva ragione: “Il carrozzone va avanti da sé“. Ma a Trapani, quando il carruzzune partiva, era tutta un’altra storia!
Non importava nulla di graffi e sbucciature alle ginocchia, anzi! Erano considerate vere e proprie medaglie al valore dagli stoici, eroici e incoscienti ragazzi di allora, simboli di imprese leggendarie e corse memorabili che valevano più di qualsiasi trofeo.
C’era una volta il calcio delle partite alle 15:00, un tempo in cui le emozioni correvano veloci come onde radio su quella magica frequenza, 88.4 FM. Si ascoltavano le partite con l’orecchio incollato alla radiolina o al vecchio stereo di casa, in un silenzio quasi religioso, interrotto solo dai guizzi di gioia o dalle imprecazioni per un gol mancato. Era un rito, semplice e perfetto, che ci faceva sentire parte di qualcosa di più grande, anche se eravamo chiusi in una stanza o seduti in macchina, magari con i vetri appannati dal freddo pungente delle domeniche d’inverno.
Negli anni ’80 e ’90, quelle voci alla radio erano il nostro ponte con i campi di Serie A, raccontati come fossero battaglie epiche. I cronisti, con i loro timbri inconfondibili, ci regalavano immagini nitide anche senza uno schermo. Era come se il pallone rotolasse davvero davanti a noi, tra il fruscio della radiolina e i racconti che si facevano poesia.
E poi, alle 19:00, l’attesa finiva con l’arrivo di “90° Minuto”, una vera istituzione. Conduceva lui, il grande “Bisteccone” Giampiero Galeazzi, con la sua presenza calorosa e rassicurante. Era come ritrovare un amico di famiglia che ci accompagnava attraverso i campi d’Italia, con i suoi racconti vibranti e la sua inimitabile ironia. Bastava un suo sorriso, un suo commento colorito, per farci sentire che eravamo tutti lì, sugli spalti di San Siro, del San Paolo, o del Delle Alpi, condividendo le stesse emozioni.
Porca miseria, ma quanto era bello! Non c’erano streaming, né highlight on demand: c’erano l’attesa, la sorpresa, e quel senso di comunità che il calcio sapeva creare. Quando il fischio finale sanciva la fine della giornata sportiva, ci si sentiva un po’ più vicini, legati da quel filo invisibile fatto di gol, rimonte, e speranze.
E oggi? Oggi il calcio è cambiato, frammentato tra mille orari, mille schermi, e mille distrazioni. Ma chi ha vissuto quegli anni lo sa: le domeniche alle 15:00 non erano solo partite, erano la celebrazione di un modo di vivere il calcio che forse non tornerà più, ma che resterà per sempre nei nostri cuori.