Trapani è una città di mare, vento e luce, ma è anche la culla di una delle tradizioni artigianali più affascinanti del Mediterraneo: la lavorazione del **corallo rosso**. Da secoli, questo prezioso dono del mare viene trasformato in opere d’arte, tramandando saperi antichi e raccontando storie di devozione, cultura e bellezza.
Il corallium rubrum, noto come corallo rosso mediterraneo, è una specie unica per intensità cromatica e compattezza, caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto alla lavorazione artistica. Si trova sui fondali rocciosi tra i 30 e i 200 metri di profondità, soprattutto lungo le coste della Sicilia, della Sardegna e della Tunisia.
Un tempo, i corallari trapanesi solcavano il mare aperto per settimane, sfidando le onde con le loro imbarcazioni per pescare il corallo con l’antico metodo della croce di Sant’Andrea: una pesante struttura in legno e ferro che, trascinata sui fondali, spezzava i rami di corallo, facendoli risalire in superficie impigliati nelle reti. Questo metodo, sebbene efficace, ha contribuito alla riduzione delle colonie, portando oggi a una pesca più regolamentata e sostenibile.
Il corallo rosso è avvolto da un’aura di mistero fin dall’antichità. Secondo la mitologia greca, sarebbe nato dal sangue della Gorgone Medusa, pietrificata da Perseo. Per i Romani era un amuleto contro il malocchio, mentre nel Medioevo veniva usato per proteggere i bambini dalle malattie.
A partire dal XV secolo, Trapani divenne uno dei centri più importanti per la lavorazione del corallo, al pari di Torre del Greco e Alghero. Nel periodo barocco, gli artigiani trapanesi raggiunsero un livello di eccellenza straordinario, esportando le loro opere in tutta Europa e ricevendo commissioni da nobili, ordini religiosi e persino dalla Santa Sede.
A Trapani, il corallo non è solo un materiale prezioso, ma un elemento che si fonde con l’identità stessa della città. Gli artigiani, detti curaddari” (nome dal quale nasceva una strada citttadina chiamata Via Corallai), che lo lavoravano con tecniche raffinate, spesso abbinandolo a oro, argento e madreperla.
Le opere più celebri della tradizione trapanese includono:
Gioielli e amuleti: orecchini, bracciali, rosari e spille, spesso con motivi marini o sacri.
Oggetti devozionali: reliquiari, crocifissi e Madonne scolpite in corallo, destinati a chiese e collezioni private.
Quadri scultura: autentiche meraviglie artistiche in cui il corallo veniva incastonato su supporti d’argento, dando vita a scene bibliche e mitologiche.
Uno degli esempi più straordinari di questa arte è il Tesoro della Madonna di Trapani, conservato presso il Santuario dell’Annunziata: una serie di gioielli e oggetti sacri realizzati con l’abilità impareggiabile dei maestri trapanesi.
Un Amuleto Contro il Malocchio: Ancora oggi in Sicilia, si regala un piccolo corallo rosso ai neonati per proteggerli dagli influssi negativi. Il corallo è considerato un talismano che porta fortuna e salute.
Sangue del Mare: I pescatori trapanesi chiamavano il corallo “u sangu ru mari” (il sangue del mare), credendo che avesse proprietà magiche e curative.
L’Ultimo Artigiano del Corallo: Con il passare dei secoli, la lavorazione del corallo a Trapani si è ridotta, ma ancora oggi alcune botteghe artigiane continuano a custodire questo sapere antico.
Chiunque voglia immergersi in questa tradizione non può perdersi una visita al Museo Regionale Pepoli, dove è custodita una straordinaria collezione di opere in corallo, tra cui tabernacoli, busti e reliquiari.
Oggi, il corallo rosso è sempre più raro e la sua pesca è regolamentata per preservarne le colonie. Tuttavia, l’arte e la storia che lo accompagnano continuano a vivere nel cuore di Trapani, rendendo ogni pezzo non solo un manufatto, ma un frammento di cultura, bellezza e passione.
Trapani – Alla luce del sit-in di protesta organizzato da Fratelli d’Italia contro la cittadinanza onoraria agli equipaggi delle O.N.G., il sindaco di Trapani Giacomo Tranchida rilascerà delle dichiarazioni in occasione di una conferenza stampa appositamente convocata per domani, 29 gennaio 2025, alle 11 a Palazzo d’Alì.
Il sindaco di Trapani Giacomo Tranchida ha proposto di conferire la cittadinanza onoraria alle Ong Jugend Rettet, Save the Children e Medici senza Frontiere per la loro opera di salvataggio dei migranti nel Mediterraneo. E da subito erano divampate le polemiche sollevate da Fratelli d’Italia. La proposta di delibera, approvata dalla giunta era arrivata dopo la sentenza di non luogo a procedere, nel maggio scorso, del gup di Trapani nei confronti delle Ong accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Cioè il caso del sequestro della nave Iuventa, ferma da 8 anni al porto di Trapani. Un caso che ha indignato il mondo per come sono state condotte le indagini e le accuse infontdate sollevate nei confronti delle Ong.
Il detto trapanese “A cu’ afferra un turco è so’” è un’espressione che, nel linguaggio moderno, significa che chi trova un oggetto può appropriarsene liberamente o, in senso più ampio, che ognuno è libero di fare ciò che vuole. Tuttavia, le origini storiche e il significato autentico di questo detto affondano le loro radici in un passato lontano, legato alla cultura marinara e agli eventi storici che segnarono Trapani nel XV e XVI secolo.
Nel contesto trapanese di quei secoli, il termine “turco” non indicava esclusivamente i cittadini dell’Impero Ottomano, ma era usato in senso dispregiativo per identificare tutti i popoli provenienti dall’Europa sudorientale, dal Medio Oriente e dal Nordafrica. La parola venne estesa anche a persone di carnagione scura, come i magrebini, a causa delle frequenti incursioni e del rapporto conflittuale con queste popolazioni.
Il detto nasce nel XVI secolo, un periodo in cui la pirateria imperversava nel Mediterraneo. All’epoca, molti stati europei rilasciavano ai comandanti delle navi una “patente di corsa”, un documento che autorizzava le navi a catturare i nemici considerati una minaccia, prendendoli prigionieri e riducendoli in schiavitù. I corsari erano quindi una sorta di pirati “legalizzati”, che dovevano però versare una tassa allo Stato sugli introiti ottenuti dalle loro attività.
Con l’aumento dei pericoli legati alla pirateria mediterranea, il viceré Colonna emanò una “prammatica” per incentivare la cattura dei pirati. Questo decreto esonerava i marinai trapanesi dal pagamento della tassa dovuta all’almirante (l’ammiraglio) per la cattura dei turchi. In altre parole, il ricavato della vendita degli schiavi catturati diventava **esentasse**, rendendo l’impresa più redditizia e incoraggiando le navi a correre i rischi della guerra di “Corsa”.
In questo contesto storico, il detto “A cu’ afferra un turco è so’” rifletteva una situazione molto concreta: chiunque riuscisse a catturare un “turco” (inteso come nemico) poteva considerarlo un proprio bottino, senza dover rendere conto alle autorità. Questo incentivo economico e giuridico rese l’attività corsara particolarmente attrattiva per i marinai dell’epoca.
Con il passare dei secoli, il detto perse il suo significato letterale legato alla pirateria e alla cattura dei nemici, trasformandosi in una metafora che celebra la libertà di appropriazione o di azione. Rimane, però, un’espressione carica di storia, che testimonia il ruolo di Trapani come crocevia di culture e teatro di conflitti nel Mediterraneo.
Il detto “A cu’ afferra un turco è so’” porta con sé una storia affascinante e complessa, ma siamo certi che ogni lettore potrebbe cogliere sfumature diverse o interpretazioni personali. Ti invitiamo a condividere i tuoi pensieri nei commenti!
Hai un punto di vista alternativo? Conosci altre storie legate a Trapani o ai proverbi della tradizione siciliana? Oppure, magari, il detto ti ricorda un’esperienza personale? Lasciaci un tuo contributo! Ogni voce arricchisce questa narrazione e ci permette di scoprire nuove prospettive. Facci sapere cosa ne pensi!
Agrigento – Cerimonia d’apertura di “Agrigento Capitale italiana della Cultura 2025” stamane al Teatro Pirandello, alla presenza del presidente della repubbica Sergio Mattarella, del ministro della Cultura, Alessandro Giuli, del presidente della Regione Renato Schifani e dell’Ars Gaetano Galvagno. A fare gli onori di casa il sindaco di Agrigento Francesco Miccichè.
«Agrigento, con l’isola di Lampedusa e i comuni della provincia, ha assunto come ispirazione, riferimento tematico e obiettivo di questo anno la relazione fra l’individuo, il prossimo e la natura, ponendo come fulcro l’accoglienza e la mobilità. Il programma delle iniziative presentato a un pubblico nazionale e internazionale è di grande interesse. Partendo dalla straordinaria eredità culturale del territorio, infatti, valorizza una variegata offerta culturale, nella quale tradizione, intersezioni e contaminazioni culturali consentono di definire una dimensione innovativa che guarda con fiducia allo sviluppo socio-economico che, con fatica ma con determinazione, la Sicilia ha già avviato». È questo uno dei passaggi centrali del saluto del presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, che poi ha aggiunto: «Di assoluto rilievo è il coinvolgimento attivo delle giovani generazioni, in una terra che troppe energie perde ancora a causa dell’emigrazione, affinché la cultura possa rappresentare un caposaldo della crescita personale e dell’intera comunità. Il titolo di Capitale della Cultura, che si è ormai consolidato dopo tante edizioni, offrirà ad Agrigento e all’intera Sicilia l’opportunità di rinsaldare e far conoscere le proprie radici, mostrandole agli italiani e agli stranieri che, siamo certi numerosi, verranno a visitarla».
«Da Agrigento, mentre nel Mediterraneo inizia a spirare un flebile vento di pace, la Capitale italiana della Cultura darà l’opportunità di far conoscere quell’incrocio di civiltà che è stato e che è – ha sottolineato – grazie alla capacità di comporre le differenze, di metterle a sistema, di ricondurre le antitesi a sintesi proprio attraverso la cultura e la sua bellezza senza tempo».
«Il governo della Regione – ha continuato il governatore – ha avviato un’azione preparatoria di questo anno particolare promuovendo il concerto natalizio trasmesso dalla Valle dei templi in televisione. Un evento che ha avuto un significativo successo a livello nazionale. Il rilevante sostegno finanziario offerto dalla Regione è giustificato dalla convinzione che questo importante investimento culturale sia una straordinaria opportunità per tutta la Sicilia, così come lo sarà Gibellina prima Capitale italiana dell’Arte contemporanea nel 2026».
«Proprio partendo dalla consapevolezza di sé, del proprio retaggio storico, dell’immensa eredità culturale ricevuta, del prezioso ecosistema da preservare e tramandare alle future generazioni – ha concluso il presidente Schifani – ci si deve aprire all’altro, alla comunità, alla natura, al confronto, spesso misterioso, con la diversità (culturale, religiosa, etnica), alla natura. Una visione relazionale, di accoglienza, di dialogo che è l’antico retaggio di un’identità plurale condivisa. Noi in Sicilia facciamo così da secoli. Ed Agrigento potrà essere ancora una volta testimonianza ed emblema dalla cultura siciliana ed italiana».