Marsala – Siamo ormai alle battute finali del processo davanti al tribunale di Marsala, presieduto da Vito Marcello Saladino che vede imputato l’ex medico di base di Campobello di Mazara, Alfonso Tumbarello, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e falso in atti pubblici è stata la volta delle arringhe.
A parlare l’avvocato Giuseppe Pantaleo il quale ha sottolineato come il suo assistito “fosse convinto di curare Andrea Bonafede e non il boss latitante”, ribadendo che come qualsiasi medico conservava addirittura i messaggi sul telefonino, non avendo nulla da nascondere. Tumbarello ha sempre sostenuto di non aver mai conosciuto la vera identità del paziente. “Il dottore Tumbarello che poteva dire? Basta tutto quello quello che ho, lo chiudo, lo straccio, lo distruggo, lo cancello, invece ha conservato tutto” ha rimarcato l’avvocato Pantalero. Ed ha poi continuato: “Si trovano i vecchissimi messaggi whatsapp con altre persone. Tanta gente lo chiama Alfonsino”. Il vecchio medico di base di Campobello di Mazara era molto stimato non solo nella sua città e aveva tantissimi pazienti e non poteva conoscerli tutti. “Le contraddizioni o le omissioni, o i cattivi ricordi – ha sottolineato ancora l’avvocato Giuseppe Pantaleo nella sua accorata arringa – non sono indizio di menzogna e di voler nascondere fatti delittuosi”. Quindi nessuna prova e per questo deve essere assolto – ha sottolineato Pantaleo.
Prossima udienzal’arringa dell’altro difensore l’avvocato Gioacchino Sbacchi
Al termine della requisitoria tenuta lo scorso 22 gennaio dal pm della Dda di Palermo Gianluca De Leo invece per Tumbarello erano stati chiesti 18 anni di carcere. Per l’accusa l’ex medico di base di Campobello di Mazara, città dove il boss oggi deceduto ha vissuto per almeno cinque anni, protetto e riverito da una schiera di favoreggiatori, sarebbe stato un complice prescrivendo e firmando 95 ricette per i farmaci e 42 analisi. Per un totale di 137 prescrizioni per consentire all’allora boss latitante Matteo Messina Denaro, di potersi curare dal cancro di cui soffriva, sotto il falso nome di «Andrea Bonafede», di poter accedere quindi ad ambulatori medici e ospedali per curarsi a spese dello stato nonostante fosse latitante. Secondo l’accusa, il medico avrebbe visitato personalmente Matteo Messina Denaro e sarebbe stato consapevole della sua identità.
Palermo – “Non è, infatti, di certo minimamente credibile che il latitante notoriamente più pericoloso e più ricercato d’Italia, abbia condiviso importantissimi segreti per Cosa nostra, ovvero non solo la sua collocazione ma anche i suoi spostamenti; le sue precarie condizioni di salute e le questioni di natura mafiosa sino a raccogliere il suo testamento ricevendo le direttive sul dopo con una persona non affiliata, solo perché ad essa legata affettivamente”.
E’ uno dei passaggi della motivazione della sentenza con cui il gup di Palermo ha condannato a 11 anni e 4 mesi, per associazione mafiosa, Laura Bonafede, la maestra di Campobello di Mazara, figlia del boss del paese, che per anni è stata sentimentalmente legata a Matteo Messina Denaro col quale ha avuto contatti fino a pochi giorni prima del suo arresto. Per il giudice è evidente come le condotte della donna non fossero “circoscritte e rivolte al singolo, ma – semmai – abbiano dato un contributo altamente qualificato, essenziale all’associazione mafiosa Cosa nostra in sé, in quanto servente un pericolosissimo capo e latitante”.
“Il contributo di Bonafede, infatti, non può in alcun modo rientrare (come ha richiesto la difesa) nel novero del favoreggiamento personale sia pure con l’aggravante mafiosa, – scrive – Trascendono il mero rapporto personale con Messina Denaro le condotte della maestra sono, dunque, più coerentemente riconducibili ad un apporto di carattere sistematico sorretto dalla piena consapevolezza del ruolo apicale rivestito dal boss nell’organizzazione mafiosa e della universalmente nota condizione di latitanza dello stesso, inevitabilmente funzionale all’attività illecita collettiva propria dell’associazione mafiosa”.
Sotto processo per favoreggiamento – la sentenza è attesa per marzo – c’è ora la figlia della Bonafede, Martina Gentile che il capomafia ha cresciuto come una figlia”. (Fonte Ansa)
Voghera – Si stava andando a costituire. Giuseppe Fidanzati 53anni, figlio del defunto Gaetano, boss di Cosa nostra già a capo del mandamento dell’Acquasanta a Palermo è stato arrestato dai carabinieri appena fuori il carcere di Voghera, dove si stava andando a costituire. Fidanzati era coinvolto nell’ambito dell’operazione antimafia Hydra della pm della Dda Alessandra Cerreti sul cosiddetto «Sistema mafioso lombardo».
Ad attenderlo i carabinieri del nucleo investigativo di Milano che hanno così eseguito l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale del Riesame di Milano, dopo che la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso contro il provvedimento restrittivo in cui Fidanzati è accusato di associazione di stampo mafioso.
Fidanzati, ritenuto un narcotrafficante che sarebbe stato al vertice per conto di Cosa Nostra della presunta «alleanza» con affiliati anche alla ‘ndrangheta e alla camorra, è coinvolto nel blitz che ha visto finire in cella anche Paolo Aurelio Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro.
Paolo Aurelio Errante Parrino, 77 anni, è stato arrestato nel pomeriggio di lunedì 27 gennaio, è considerato il referente degli uomini di Matteo Messina Denaro in Lombardia. È cugino del padrino deceduto.
La Cassazione ha respinto anche il suo ricorso contro la decisione del Riesame sull’indagine Hydra, rendendo esecutivo il provvedimento di carcerazione. Al momento dell’arresto stava entrando all’ospedale di Magenta.
Paolo Errante Parrino, nato a Castelvetrano da anni residente ad Abbiategrasso. Sarebbe un uomo chiave, ma lui ha sempre negato ogni suo coinvolgimento sostenendo di essere un pensionato.
Alcuni furono definiti summit. Il 05 marzo 2017 a Peschiera Borromeo si sono dati appuntamento Giuseppe Fidanzati e l’avvocato Antonio Messina. Il primo è figlio di Gaetano, boss deceduto del rione Acquasanta di Palermo, ed ha scontato una lunga condanna per droga. Anche il secondo, massone, è stato condannato per traffico internazionale di droga. Nei loro dialoghi facevano riferimento ad un “ragazzo” di Castelvetrano, identificato in Francesco Guttadauro, nipote del cuore di Matteo Messina Denaro.
In particolare, Fidanzati ricordava di un incontro avvenuto alla stazione di Trapani con “Iddu” (lui ndr) che si era fatto accompagnare a bordo di una Mercedes da un certo “Mimmu”. Non è chiaro se “Iddu” sia riferito a Guttadauro o, come invece sospettarono gli investigatori, a Messina Denaro.
Discutevano di affari da sviluppare in zona. Nella bassa provincia milanese, tra Legnano e Abbiategrasso, si è insediata da anni una comunità di castelvetranesi, fra cui Paolo Errante Parrino. Facevano capo ad un’associazione che ufficialmente organizzava eventi e attività ludiche ed era presieduta dall’avvocato Giovanni Bosco deceduto per un malore all’ospedale di Magenta lo scorso anno. Era tra i quattro arrestati nell’inchiesta milanese su un sistema di bancarotte, frodi fiscali e riciclaggio. La moglie di Errante Parrino è Antonina Bosco. I Bosco sono cugini di Gaspare Como, sposato con Bice, una delle sorelle dell’ex latitante morto dopo l’arresto.
Nel marzo 2021 ci fu un lutto a casa Messina Denaro. Gaspare Allegra, 37 anni, figlio della sorella del padrino, Giovanna, e di Rosario morì durante una gita sul monte Grisone, sul lago di Como. Faceva l’avvocato e collaborava con lo studio legale di Bosco.
Nel portafogli dello zio Matteo, il giorno dell’arresto davanti alla clinica “La Maddalena di Palermo”, c’era una foto del nipote deceduto. Errante Parrino prima organizzò la camera ardente e il trasferimento della salma a Castelvetrano, poi venne in Sicilia. “Sto facendo il mio dovere”, rispondeva così Errante Parrino a chi lo ringraziava.
Il 30 novembre successivo sul telefonino di Errante Parrino furono inviati via Whatsapp i documenti di Vito Panicola, figlio di Vincenzo e di un’altra sorella di Matteo Messina Denaro, Patrizia. Il giovane cercava lavoro e voleva trasferirsi a Vigevano (la città dove era detenuta la madre).
Entrambi i genitori sono stati condannati per mafia, la donna è ancora in carcere. Finirà di scontare la pena fra un paio di anni. Le trasferte di Errante Parrino a Castelvetrano si sono ripetute. Faceva visita alle sorelle, ma anche alla madre del latitante Lorenza Santangelo.
Nel 2021 ci fu un duro scontro fra Gioacchino Amico e i Pace di Trapani, inseriti, secondo la Procura di Milano, nel “sistema illecito degli affari”. Questioni di investimenti e di soldi mai restituiti. Per dirimere la faccenda sarebbe stato chiesto l’intervento di Matteo Messina Denaro.
L’ambasciata sarebbe arrivata tramite Paolo Errante Parrino e l’avvocato Messina, monitorato durante una serie di incontri al bar San Vito, si trova a pochi metri dall’ultimo covo del latitane a Campobello di Mazara.
“Gli incontri, soprattutto quelli ai quali ha partecipato Antonio Messina, a pochi metri dal covo assumono dopo la sua cattura – annotarono gli investigatori – un rilievo investigativo di primo piano, anche alla luce delle pregresse acquisizioni tecniche, che confermano come Matteo Messina Denaro fosse informato circa le operazioni finanziarie gestite dal sistema mafioso lombardo, tramite Paolo Errante Parrino”.
Trapani – Dopo l’archiviazione da parte della Procura di Palermo, parla l’oncologo trapanese Filippo Zerilli, ex primario del reparto di oncologia dell’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani. Il professionista pochi giorni dopo la cattura di Matteo Messina Denaro a Palermo, a gennaio 2023 era finito indagato dalla Procura di Palermo (la stessa che ora ha chiesto per lui l’archiviazione), nell’ambito delle indagini sui favoreggiatori dell’ormai defunto boss.
Ecco cosa ci ha dichiarato:
“Il 14 giugno 2024 è stato firmato il decreto di archiviazione delle indagini che mi hanno coinvolto nell’evento cattura di Messina Denaro. Quest’archiviazione conclude un incubo kafkiano che ha sconvolto la mia vita personale, familiare e professionale in seguito ad una visita istituzionale richiesta dall’U.O. di chirurgia dell’ospedale di Mazara del Vallo per un paziente operato di emicolectomia per carcinoma del colon. Questo paziente inoltre indossava la mascherina anti COVID (impossibile capire le sue fattezze).
Nell’immediatezza del fatto, dopo che la mia casa era stata invasa e messa a soqquadro da una quantità impressionante di carabinieri alla ricerca di prove della mia colpevolezza, ho dovuto anche fronteggiare psicologicamente l’accanimento mediatico di tanti haters che neanche mi conoscevano. In questa condizione, mai nemmeno immaginata, mi ha sostenuto la consapevolezza della mia estraneità alle accuse della Procura antimafia, l’affetto della mia famiglia, che con me ha sofferto per questo sconvolgimento della nostra vita, quello dei parenti e degli amici che ci hanno fatto sentire la loro vicinanza in un frangente così difficile e le tantissime attestazioni di stima delle persone che mi conoscono”.
Trapani – Arriva l’archiviazione per l’oncologo trapanese Filippo Zerilli primario del reparto di oncologia dell’ospedale Sant’Antonio Abate del capoluogo. Zerilli era stato indagato nel febbraio del 2023 nell’ambito dell’inchiesta sui favoreggiatori del boss castelvetranese.
Per il medico ora, è arrivata l’archiviazione. Fin da subito l’oncologo con una nota personale aveva cercato di chiarire la sua posizione. “Non ho mai conosciuto Andrea Bonafede prima del suo ingresso in ospedale né ho avuto con lui contatti personali per fissare la visita oncologica”. Per l’accusa però Zerilli avrebbe sottoposto il boss ad alcuni esami legati alla sua malattia. Anche in questo caso come poi si scoprirà per altre visite e prescrizioni, Matteo Messina Denaro si sarebbe presentato con il falso nome di Andrea Bonafede.
“Ho sempre esercitato la professione con scienza e coscienza – si era difeso l’oncologo – e non fa eccezione quanto accaduto in relazione al paziente Andrea Bonafede per il quale, il 3 dicembre 2020, in risposta a una richiesta di visita oncologica della Chirurgia di Mazara del Vallo, supportata da un referto istologico del laboratorio di Anatomia patologica dell’ospedale di Castelvetrano del 24 novembre 2020, è stata fissata all’Unità operativa che dirigo, segnata nell’agenda di reparto il 9 dicembre 2020. Non vi è altra documentazione, a mia conoscenza, dalla quale risulti la presenza del paziente Andrea Bonafede all’ospedale di Trapani”. Ora può tirare un sospiro di sollievo l’incubo è finito.
Magenta (Milano) – È stato arrestato Paolo Aurelio Errante Parrino. E’ stato preso davanti a un ospedale. La latitanza di «Zio Paolo» è durata lo spazio di tre giorni. I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano lo hanno fermato nel pomeriggio ieri all’ingresso dell’ospedale di Magenta nel Milanese. Errante Parrino 78 anni, presunto boss di Abbiategrasso parente da parte di moglie di Matteo Messina Denaro doveva essere arrestato lo scorso 25 gennaio, ma il boss si era reso irreperibile.
Gli investigatori, coordinati dal pm Alessandra Cerreti della Dda di Milano – oggetto di minacce negli ultimi tempi insieme al procuratore Marcello Viola -, hanno eseguito l’ordine di carcerazione diventato esecutivo dopo il rigetto del ricorso in Cassazione per l’inchiesta Hydra sull’alleanza mafiosa tra Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta.
Non è escluso che l’uomo venga ricoverato per questioni di salute. Il suo legale, Roberto Grittini, avrebbe già chiesto al Tribunale la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari. Lo «Zio Paolo» è considerato dagli investigatori dell’antimafia il referente della mafia trapanese in Lombardia e avrebbe tenuto per anni anche rapporti con l’ex latitante di Castelvetrano.
Alcamo – I processi si fanno caso per caso. E sul delitto di Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, i due carabinieri uccisi il 27 gennaio 1976 all’interno della caserma di Alcamo Marina dove prestavano servizio, i processi ci sono stati, anche le condanne, ma si è scoperto essere stati giudizi, di colpevolezza, truccati. I condannati hanno ottenuto la revisione del giudicato processuale, furono costretti a confessare la loro colpevolezza, quando erano assolutamente innocenti, chi li ha accusati nel frattempo, e a ridosso di quel 1976, è morto suicida in carcere, e tutto è finito inghiottito in un grande buco nero.
A riaprire il caso in ultimo ci ha provato la commissione nazionale antimafia, quella della precedente legislatura, presieduta dal senatore Nicola Morra. Atti dell’inchiesta parlamentare sono stati trasmessi alla Procura della Repubblica di Trapani. Ma come società civile abbiamo il dovere di interrogarci. Guardando al contesto. E quello che ci viene davanti agli occhi è quello trapanese, teatro di questi omicidi come di tanti altri. La terra dei “poteri forti”, intrecci tra mafia, politica, imprese, banche e…massoneria. Ci sono pagine e pagine di sentenze dove si fa riferimento a questa realtà, dove viene descritto il palcoscenico di quegli anni, dove apparati dello Stato facevano finta di attaccare la mafia, anche se ancora così molti non la chiamavano, anzi c’è di più, per tanti la mafia nemmeno esisteva, e invece con i mafiosi facevano accordi. Gladio arriva presto in Sicilia. Era già qui negli anni ’70 la struttura paramilitare creata in nome della guerra fredda, per organizzare un esercito di “patrioti” pronti a difenderci dal pericolo comunista. Ora immaginate questi gladiatori in Sicilia. A far che? Con il pericolo sovietico, l’est europeo è da tutt’altra parte. Gladio era qui per far altro. E quelli che erano patrioti forse erano tutto fuorché patrioti. La mafia, specialista negli inciuci, così faceva grandi favori. La Sicilia era una sorta di portaerei che guardava al Mediterraneo, ai paesi cosiddetti frontalieri. Nord Africa, Medio Oriente, il mare era pieno di un andirivieni di traffici…segreti. In terra di Sicilia però c’era da ottenere il lasciapassare di Cosa nostra. E così negli interscambi la mafia otteneva droga e armi. E incrementava i propri incassi. Denaro che puntualmente finiva nei grandi riciclaggi, dentro le banche siciliane innanzitutto.
Come due carabinieri che scoprono mezzi pesanti pieni di armi, un magistrato che si imbatte nei conti correnti di certi imprenditori, un altro ancora che scopre container in arrivo e in partenza dal porto di Trapani che portavano dentro cose del tutto diverse dalle merci dichiarate, un giornalista che intuisce la consistenza della mafia trapanese e non nasconde al pubblico che lo ascoltava le sue certe convinzioni, e potremmo andare avanti. Tutti fatti ufficialmente non collegati, ma che hanno lo stesso comune denominatore, delitti mafiosi con coperture eccellenti.
Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta non sappiamo da chi sono stati uccisi, ma certamente sono stati uccisi per aver fatto il loro dovere, in una terra dove all’epoca il dovere più forte esistente era quello di girarsi dall’altra parte. E questo avveniva però con il consenso di quella borghesia alla quale faceva comodo che qualcuno si sporcasse le mani, anche di sangue. Noi siamo soliti ricordare le vittime delle mafie nei giorni delle tristi ricorrenze. Può andare bene, possono essere apprezzati gesti, iniziative e cerimonie, ma nei giorni successivi abbiamo il dovere, ognuno di noi, di tirare fuori quella melma che ancora oggi copre questo territorio, questa provincia di Trapani. Perché quei tremendi inciuci di un tempo non sono stati cancellati, resistono, non possono esserci più i protagonisti di quel tempo, ma il sistema criminale esiste e resiste.
Allora raccontiamo le cose come sono andate, che Carmine e Salvatore non sono stati uccisi da dei balordi, che Ciaccio Montalto non è stato ucciso per caso, che Carlo Palermo doveva morire perché aveva guardato dentro le casseforti di certi partiti, che Mauro Rostagno fu ammazzato perché voleva denunciare l’esistenza del tavolino per la spartizione dei grandi appalti. Un contesto nel quale c’era un sistema pronto e lesto poi nel trasformare quegli omicidi quasi come se fossero conseguenza di fatti privati. Non erano delitti per fatti privati! Ammazzati perché per loro esisteva come prima cose il dover fare fino in fondo il loro dovere. Quello di dare un futuro onesto a questa terra dove tanti erano e sono i disonesti. A Trapani il tempo passa, ma le cose sembrano non cambiare mai, una ragnatela in cui si impiglia chiunque cerchi giustizia.
Abbiategrasso (Milano) – La richiesta d’arresto per lui era stata bocciata dal gip, come per molti altri, ma poi il Riesame ha accolto il ricorso della Dda di Milano e la Cassazione ha confermato quella decisone e disposto la custodia cautelare in carcere che doveva essere eseguita ieri. Ma Paolo Aurelio Errante Parrino, 77 anni, uno degli indagati della maxi inchiesta “Hydra” sulla “alleanza” delle tre mafie nel nord Italia, è irreperibile. Per gli inquirenti, Parrino, residente ad Abbiategrasso, nel Milanese, collegato al clan di Castelvetrano, sarebbe stato il “punto di raccordo” tra il presunto “sistema mafioso” in Lombardia, che avrebbe unito presunti affiliati di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, e il defunto Matteo Messina Denaro, suo cugino da parte di madre.
La decisione del Riesame, che ha riconosciuto l’imputazione principale di associazione mafiosa come contestata dal procuratore Marcello Viola e dal pm Alessandra Cerreti nell’inchiesta dei carabinieri del Nucleo investigativo, era arrivata lo scorso ottobre, dopo che il gip Tommaso Perna nell’ottobre del 2023 aveva rigettato 142 istanze di misura cautelare su 153, disponendo 11 arresti. E bocciando l’accusa sul “consorzio” delle tre mafie, ribattezzato dai pm “sistema mafioso lombardo”. In questi giorni la Cassazione sta respingendo mano a mano i ricorsi delle difese contro il Riesame, come quello discusso venerdì dalla difesa di Errante Parrino. Alcuni arresti sono già stati effettuati nei giorni scorsi, mentre Parrino è irreperibile. Il caso “Hydra” aveva anche creato uno scontro tra pm e ufficio gip, a seguito della bocciatura dei numerosi arresti richiesti.
Nei giorni scorsi, poi, dopo le prime decisioni della Cassazione di conferma del Riesame, sono stati arrestati diversi indagati, tra cui anche Gioacchino Amico, presunto vertice della “struttura unitaria” lombarda per conto della Camorra del clan dei Senese. Poi scarcerato, però, per motivi procedurali, perché aveva già passato un anno in custodia cautelare per altri reati riconosciuti dal gip nella stessa inchiesta. Anche altri, come Massimo Rosi, presunto esponente di vertice per la ‘ndrangheta, sono stati scarcerati per questo motivo e non è stato necessario un nuovo arresto per un altro indagato, difeso dall’avvocato Lorenzo Meazza.
Il Riesame, dopo il ricorso della Dda su 79 posizioni con richiesta di carcere per associazione mafiosa, aveva disposto il carcere per 41 indagati e le udienze in Cassazione andranno avanti fino a metà febbraio.
Secondo le indagini della Dda, Errante Parrino avrebbe anche passato a Messina Denaro “comunicazioni relative ad argomenti esiziali”, mentre era latitante, anche perché il boss avrebbe avuto un interesse diretto, secondo i pm, “negli ingenti affari finanziari realizzati in Lombardia dal sistema mafioso lombardo”.
Per il Riesame deve andare in carcere anche Giuseppe Fidanzati, presunto vertice per conto di Cosa Nostra (l’udienza in Cassazione si terrà la prossima settimana).
Valderice – Il 25 gennaio del 1983 a Valderice fu ammazzato per mano mafiosa un Servitore dello Stato il giudice GianGiacomo Ciaccio Montalto. Quella di Ciaccio Montalto è la storia di un magistrato onesto, di un magistrato che prima di tutti aveva capito dove colpire la mafia e i suoi solidali per vederla sconfitta, i soldi.
Oggi Valderice ha ricordato il sacrificio del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto, ucciso in una stradina della cittadina, mentre rincasava presso la sua abitazione.
La mafia di quegli anni di Ciaccio Montalto è la stessa di oggi. Una mafia che non spara più ma che si è infiltrata nelle istituzioni, nell’impresa, nelle banche come ai tempi di Ciaccio Montalto, che era andato a bussare alla porta di alcune di queste prendendosi e portandosi in ufficio gli assegni dei boss, i guadagni dei traffici di droga, delle raffinerie di eroina impiantate nel trapanese, degli appalti. La mafia che uccise Ciaccio Montalto è la stessa che oggi potente ha saputo proteggere il suo nuovo capo Matteo Messina Denaro. Nonostante le numerose minacce Ciaccio Montalto, non si arrese mai, continuando a lavorare con disciplina e rigore. Attualissime rimangono ancora ora le indagini di quel giudice che prima di essere ammazzato stava per essere trasferito a Firenze. Il giudice Ciaccio Montalto è una delle prime vittime eccellenti nel segno dell’aggressione voluta dal boss Totò Riina.
Campobello di Mazara – Dopo l’assoluzione per non aver commesso il fatto, quel che è successo a Leonardo Gulotta, 32 anni, di Campobello di Mazara, il suo legale Mariella Gulotta lo definisce una “brutta coincidenza”. Il giovane è stato assolto dal gup di Palermo Marco Gaeta (l’accusa aveva chiesto 6 anni e 8 mesi) dopo una vicenda che l’ha visto coinvolto nel troncone d’inchiesta riguardante la latitanza di Matteo Messina Denaro. Il boss di Castelvetrano, nel 2014, al momento di stipulare il contratto d’assicurazione per una Fiat 500 che acquistò sotto il falso nome di Massimo Gentile, indicò il numero di telefono che solo successivamente, nel 2011, al compimento della maggiore età, fu acquisito da Leonardo Gulotta. Il numero fornito dal boss già nel 2007 risultava agli atti dell’assicurazione, legato al nome di Gentile, ma rispetto a quello dell’intestatario differiva di una cifra.
E quella cifra sbagliata portava al nome di Leonardo Gulotta. Per la procura il giovane avrebbe così avuto un ruolo nella latitanza del boss. “Nel 2007 il mio assistito aveva 15 anni e non poteva avere una sim a suo nome – spiega il legale -. Il certificato d’attivazione con quel numero risale al 2011, quando compì 18 anni e questo l’ha prodotto la procura dopo l’interrogatorio di garanzia”.
Gulotta è stato arrestato dal Ros il 27 marzo 2024 per concorso esterno in associazione mafiosa. “In sede d’interrogatorio ho sempre dichiarato che non ho mai conosciuto Matteo Messina Denaro – spiega Leonardo Gulotta – ho lavorato per la famiglia Luppino (sono in carcere Giovanni e i figli Antonino e Vincenzo, ndr) con tre contratti stagionali nel 2019, 2022 e 2023, ma i rapporti sono stati sempre di natura lavorativa”.
“Dalla visione degli atti abbiamo potuto accertare che un numero di telefono quasi uguale (differente per una sola cifra rispetto a quello del mio assistito), è stato in uso al boss latitante – spiega l’avvocato – e non è escluso che nel compilare la scheda per l’assicurazione, Messina Denaro abbia fornito erroneamente quel numero quasi coincidente”.
Gulotta è rimasto due mesi in carcere al Pagliarelli di Palermo: “Ho sempre ribadito la mia innocenza – dice -. Conoscevo, sì, Andrea Bonafede (classe ’63), l’ho sempre salutato e non ho mai avuto rapporti con la mafia. Durante la detenzione ho pianto e non mi sono mai dato pace per quello che stava succedendo. Quando il giudice ha pronunciato la formula d’assoluzione ho pianto pensando a tutte le persone che mi sono state vicine in questi momenti difficili che non auguro a nessuno”.