Campobello di Mazara – I finanzieri del comando provinciale di Palermo hanno eseguito un sequestro di beni per oltre 3 milioni di euro nei confronti di Giovanni Luppino, indicato dagli investigatori come l’autista del boss, Matteo Messina Denaro (deceduto). Il provvedimento, emesso dal tribunale di Trapani – sezione misure di prevenzione, ha colpito il patrimonio di Luppino, arrestato il 16 gennaio 2023 insieme al capomafia presso la clinica La Maddalena di Palermo, dove il boss doveva sottoporsi a cure oncologiche.
Le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, hanno permesso di tracciare flussi di denaro destinati al mantenimento della latitanza di Messina Denaro. Attraverso l’analisi di bonifici e assegni emessi da soggetti vicini al boss, gli inquirenti hanno individuato una rete di finanziamenti a sostegno del mafioso, dimostrando il ruolo attivo di Luppino nell’assicurare il sostegno economico al ricercato.
Il sequestro ha riguardato un vasto patrimonio, tra cui:
Giovanni Luppino è stato condannato in primo grado a 9 anni e 2 mesi di reclusione per il suo coinvolgimento nelle attività del clan. La sua vicinanza a Messina Denaro e il ruolo svolto nella rete di supporto al boss hanno portato le autorità a disporre il sequestro preventivo dei suoi beni.
L’operazione della Guardia di Finanza rappresenta un ulteriore passo avanti nella lotta contro la criminalità organizzata, colpendo le risorse economiche che hanno garantito per anni l’impunità ai vertici di Cosa Nostra in provincia di Trapani. Il sequestro rientra in una strategia più ampia volta a smantellare le basi finanziarie della mafia siciliana e in particolare di quella che ha fino ad oggi finanziato e protetto la trentennale latitanza dell’ormai deceduto boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro.
Sono passati 43 anni dalla brutale uccisione di Pio La Torre, dirigente del Partito Comunista Italiano, ma il suo assassinio resta ancora oggi un tema di dibattito. Chi lo ha voluto morto? La mafia, certamente. Ma solo la mafia?
Le indagini e i processi hanno confermato che dietro l’omicidio avvenuto il 30 aprile 1982 a Palermo ci fossero Totò Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa Nostra. Tuttavia, il quadro è più complesso: La Torre, da sempre impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, si era anche opposto all’installazione dei missili NATO a Comiso, una battaglia pacifista che aveva mobilitato migliaia di persone.
Pio La Torre non era solo un politico, ma un simbolo della lotta alla mafia e per la giustizia sociale. Il suo impegno e la sua capacità di coinvolgere il popolo lo resero un nemico pericoloso per molti poteri, non solo mafiosi.
A ricordarne la figura e i misteri della sua morte sarà Armando Sorrentino, avvocato e dirigente dell’ANPI, che discuterà dell’eredità politica e civile di La Torre in un evento organizzato dall’ANPI Trapani il 4 marzo a Palazzo D’Alì. Insieme a lui, i giornalisti Fabio Pace e Rino Giacalone analizzeranno il contesto storico e le ombre che ancora avvolgono l’assassinio.
Trapani – La scena descritta pare ricalcare quella della sceneggiatura della fortunata serie cinematografica “Amici Miei”. Solo che i protagonisti sono parecchio diversi e lontani dagli attori che hanno lavorato insieme per una lunga serie, sotto le migliori regie. I comportamenti non erano quelli propri di quei bricconcelli amanti degli scherzi e delle burle. La combriccola, che amava farsi fotografare allegramente, con tanto di pollici all’insù, si muoveva bene ma per fare…affari, controllare appalti, gestire servizi pubblici, comprare e vendere voti. Nella serie “Amici Miei” ad un certo punto si spiega cos’è il genio.
Ma chi ha avuto “intuizione, decisione e velocità d’esecuzione” (spiegazione cinematografica del “genio”, l’originale comprende la fantasia ma in questo caso non c’entra) non è stata la brigata che le mascalzonate le avrebbe fatte per davvero e non per scherzo, ma gli investigatori che hanno capito e subito si sono messi addosso.
Custonaci tra il 2017 e il 2022 è stata preda di boss mafiosi conclamati, per le sentenze passate in giudicato, il carcere non li ha riabilitati ma semmai ha fatto fare a loro carriera, politici e imprenditori conniventi. E’ la sintesi che viene fuori dalla prima udienza del processo scaturito dall’operazione “Scialandro”: davanti al Tribunale, presidente giudice Troja a latere Marroccoli e Cantone, ha cominciato il racconto il maggiore dei Carabinieri Vito Cito, uno degli investigatori del Roni dell’Arma di Trapani, mente storica ma anche testimone attendibile delle dinamiche odierne di Cosa nostra trapanese.
L’indagine “Scialandro” esplose con arresti e indagati eccellenti nell’ottobre del 2023. Una inchiesta coordinata dalla Procura antimafia di Palermo e condotta assieme da Carabinieri, Dia, Squadra Mobile, loro furono capaci di accendere i riflettori, senza essere visti, su una parte del territorio, da Custonaci a Trapani, da Dattilo a Marsala. Erano amici ma solo tra di loro e amici di Cosa nostra. Le responsabilità contestate agli otto imputati comparsi dinanzi al Tribunale, sono state minuziosamente descritti dal maggiore Cito che ha risposto alle domande dei pm Giacomo Brandini e Giulia Beaux. E’ stata quest’ultima in udienza a fare le domande seguendo passo passo le intercettazioni riportate nell’informativa. E il maggiore Cito ne ha riassunto via via il contenuto.
Ma siamo solo all’inizio. Non sono state sufficienti le tre ore di deposizione, proseguirà a marzo. Gli imputati sono Pietro Armando Bonanno, Tano Gigante, Mario Mazzara Francesco Lipari, nomi pesanti del gotha mafioso trapanese, Giuseppe Maranzano, Francesco Todaro (tutti presenti e collegati in video conferenza dai rispettivi penitenziari essendo sottoposti a misura cautelare), in aula c’erano invece Mariano Minore e Giuseppe Zichichi.
Altri indagati, dieci in tutto, sono stati già giudicati e condannati a complessivi 70 anni di carcere, col rito abbreviato, tra loro Giuseppe Costa(nella foto accanto), condannato per l’indagine Scialandro a 4 anni e 10 mesi. Questi da semplice uomo della manovalanza mafiosa, a lui fu affidata per un periodo la gestione del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino, strangolato e sciolto nell’acido, per vendetta contro il padre) tenuto anche sequestrato nella frazione Purgatorio di Custonaci, scontata la pena per questo fatto, libero si è ritrovato ai vertici della famiglia mafiosa del suo paese, grazie anche alla parentela intanto stretta con il killer di Cosa nostra Vito Mazzara.
Cosca mafiosa capace di infiltrarsi nel Comune, all’epoca guidato da uno dei più potenti uomini della Dc trapanese, il medico Giuseppe Morfino (indagato ma finito fuori dall’inchiesta): il maggiore Cito ha fatto cenno alla nomina a vice sindaco di Carlo Guarano, “uomo appartenente alla famiglia di mafia”. Morfino e Guarano furono i primi “bersagli” delle indagini, finiti intercettati per ordine dell’Antimafia. Questo perchè la Procura distrettuale raccolse subito lo spessore di Guarano, intercettato a parlare malamente in una occasione delle manifestazioni a ricordo del giudice Falcone, “sto minchia di Falcone”, cosa che fa ricordare lo sfogo di Matteo Messina Denaro, rimasto imbottigliato in strada a Palermo mentre tanta gente sfilava nel ricordo del magistrato.
Non tutti sono rimasti a guardare quello che succedeva a Custonaci, e ci sono state le denunce: un imprenditore che ha denunciato i tentativi di avvicinamento, a proposito del controllo del mercato del calcestruzzo, Donato Bernardino, e un ex assessore, Giovanni Noto che decise di non far finta di nulla. Altri sedevano alle tavole dei banchetti elettorali non si sa quanto in modo inconsapevole.
L’elenco degli affari è lungo, dal controllo dei voti, agli appalti pubblici. Sotto il controllo della cosca secondo il racconto del maggiore Cito i lavori per il lungomare e per il basolato di Cornino, la gestione delle forniture d’acqua, sapere tutto sui guadagni di certe attività, come quelle olearie, sul commercio delle pietre estratte dalla lavorazione del marmo.
Le intercettazioni hanno captato tante cose, per Carlo Guarano (nella foto accanto) c’erano “i ragazzi” da favorire per gli appalti, Giovanni Marceca e Roberto Melita. E Guarano seguiva personalmente gli appalti, redaguendo in qualche caso l’architetto Giuseppe Morfino, cugino del sindaco, “possedeva tanto mano libera”. A Custonaci non si poteva sbagliare con chi rapportarsi, uno dei pezzi da 90 nel frattempo scomparsi, Antonino Todaro, aveva lasciato detto alla figlia che se avesse avuto bisogno “era con quelli che camminano con me” che avrebbe dovuto rivolgersi. E poi a comandare c’erano i fratelli Mazzara ai quali venivano rendicontati i lavori in corso.
La testimonianza del maggiore Cito ha anche puntato i riflettori sul sindaco dell’epoca Morfino che non sarebbe stato del tutto ignaro ma non sono emersi profili di complicità. E’ emerso anche il caso di un ex dipendente comunale, Baldassare Campo, il figlio Giovanbattista fu assessore di Morfino, che aveva libero accesso nell’ufficio tecnico e utilizzava le postazioni per sapere di appalti e affidamenti. Tra i nomi indicati quello di Baldassare Bica un altro soggetto, non indagato, ma che l’investigatore ha indicato tra i referenti di Giovanni Marceca.
L’indagine “Scialandro” fu una conseguenza dell’indagine “Scrigno”, e il maggiore Cito ha riferito della intercettazione di una conversazione tra l’imprenditore trapanese Ninni D’Aguanno e la moglie Ivana Inferrera nel periodo in cui questa fu candidata alle regionali nel 2017. Il marito è stato condannato, lei fu anche arrestata ma prosciolta da ogni accusa. Il marito il giorno dello spoglio elettorale, ha detto l’investigatore, le confidò di avere chiesto aiuto elettorale ai Mazzara di Custonaci, svelando “il nome dei Mazzara suscita timori riverenziali”. Aiuto inutile perché non venne eletta, ma a proposito di aiuti elettorali e di altro, il racconto del maggiore Cito non è terminato.
Nel processo sono costituite diverse parti civili tra questi il Comune di Custonaci, le associazioni Pio La Torre, Caponnetto e Dino Grammatico.
Gibellina – Il Questore di Trapani, ha disposto specifico divieto di svolgimento delle esequie in forma pubblica per Vincenzo Funari, deceduto ieri pomeriggio a Marsala. In virtù del provvedimento è vietata ogni commemorazione od altra funzione religiosa che si svolga al di fuori del cimitero dove la salma dell’uomo, nelle prossime ore, verrà trasferita e tumulata.
Funari deceduto a Marsala, nel pomeriggio di ieri, a capo della famiglia mafiosa di Gibellina, più volte arrestato poiché ritenuto appartenente alla consorteria mafiosa cosa nostra operante in provincia di Trapani per associazione per delinquere di tipo mafioso ed altri gravi reati.
Funari 92 anni nel 2010 era tra gli arrestati nell’operazione “Nerone” dei Carabinieri e successivamente condannato nel processo svoltosi con il rito abbreviato al Tribunale di Palermo.
Grazie ad una serie di intercettazioni ambientali e telefoniche disposte presso l’abitazione di Funari, al tempo ai domiciliari per una precedente inchiesta giudiziaria, gli investigatori dell’Arma avevano ricostruito le attività di Cosa Nostra in quel territorio. Il capo mafia, infatti, riceveva tranquillamente “ospiti”, che provenivano anche da Marsala, per mettere a punto le strategie criminali.
Sempre in quelle intercettazioni, era emerso come la presenza dell’allora latitante Matteo Messina Denaro nel territorio desse fastidio ai boss. Funari, ancora intercettato, diceva “fino a che c’è iddu in giro beddu tempo un cinn’è” (“fino a che c’è questo in giro bel tempo non ce ne sarà per nessuno”), una lamentela per la massiccia presenza investigativa volta alla cattura del capo mafia di Castelvetrano che faceva sentire gli affiliati, e lo dicevano nelle conversazioni intercettate, “con il fiato sul collo”.
La tipologia di provvedimento disposta dal Questore ha la finalità di scongiurare che i funerali possano costituire il pretesto per manifestazioni di consenso più o meno esplicito verso l’organizzazione mafiosa.
Palermo – Duro colpo alla mafia del palermitano. Nel corso di una maxi-operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo sono stati disposti i fermi e gli arresti di 181 persone, tra boss, «colonnelli», uomini d’onore, ed estortori di diversi «mandamenti» del capoluogo siciliano e della provincia.
L’inchiesta, condotta dai carabinieri e coordinata dal procuratore Maurizio de Lucia e dalla procuratrice aggiunta Marzia Sabella, ha svelato l’organigramma delle principali famiglie, gli affari dei clan e l’ennesimo tentativo di Cosa nostra di ricostituire la Cupola provinciale e di reagire alla dura repressione che negli ultimi anni ha portato in cella migliaia di persone.
In pratica le indagini hanno fatto scoprire che Cosa nostra si stava ricompattando senza troppo clamore. Torna in carcere il boss di Porta Nuova, Tommaso Lo Presti, scarcerato per fine pena. Aveva celebrato le nozze d’argento a San Domenico, dove c’è la tomba di Falcone. In carcere anche Francolino Spadaro. In una delle cinque indagini confluite nella maxi operazione antimafia di questa notte, gli investigatori dei carabinieri del comando provinciale hanno scoperto il nuovo sistema con il quale i boss si riunivano per riorganizzare la nuova commissione provinciale, azzerata già una volta con gli arresti di dicembre 2018. I capimafia in carcere e quelli ancora liberi utilizzavano telefonini di ultima generazione con particolari software criptati per i summit fra mandamenti. Applicazioni di comunicazione con sistemi di crittografia avanzatissimi e difficilmente intercettabili.
L’operazione, che ha interessato anche altre città italiane, puntava a «disarticolare i mandamenti mafiosi della città di Palermo e provincia, in particolare quelli di “Porta Nuova”, “Pagliarelli”, “Tommaso Natale – San Lorenzo, “Santa Maria del Gesù” e “Bagheria”». Gli arrestati sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, tentato omicidio, estorsioni, consumate o tentate, aggravate dal metodo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, favoreggiamento personale, reati in materia di armi, contro il patrimonio, la persona, esercizio abusivo del gioco d’azzardo, e altro.
I particolari dell’operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa prevista per le 10.
Articolo in aggiornamento.
Palermo – “Non è, infatti, di certo minimamente credibile che il latitante notoriamente più pericoloso e più ricercato d’Italia, abbia condiviso importantissimi segreti per Cosa nostra, ovvero non solo la sua collocazione ma anche i suoi spostamenti; le sue precarie condizioni di salute e le questioni di natura mafiosa sino a raccogliere il suo testamento ricevendo le direttive sul dopo con una persona non affiliata, solo perché ad essa legata affettivamente”.
E’ uno dei passaggi della motivazione della sentenza con cui il gup di Palermo ha condannato a 11 anni e 4 mesi, per associazione mafiosa, Laura Bonafede, la maestra di Campobello di Mazara, figlia del boss del paese, che per anni è stata sentimentalmente legata a Matteo Messina Denaro col quale ha avuto contatti fino a pochi giorni prima del suo arresto. Per il giudice è evidente come le condotte della donna non fossero “circoscritte e rivolte al singolo, ma – semmai – abbiano dato un contributo altamente qualificato, essenziale all’associazione mafiosa Cosa nostra in sé, in quanto servente un pericolosissimo capo e latitante”.
“Il contributo di Bonafede, infatti, non può in alcun modo rientrare (come ha richiesto la difesa) nel novero del favoreggiamento personale sia pure con l’aggravante mafiosa, – scrive – Trascendono il mero rapporto personale con Messina Denaro le condotte della maestra sono, dunque, più coerentemente riconducibili ad un apporto di carattere sistematico sorretto dalla piena consapevolezza del ruolo apicale rivestito dal boss nell’organizzazione mafiosa e della universalmente nota condizione di latitanza dello stesso, inevitabilmente funzionale all’attività illecita collettiva propria dell’associazione mafiosa”.
Sotto processo per favoreggiamento – la sentenza è attesa per marzo – c’è ora la figlia della Bonafede, Martina Gentile che il capomafia ha cresciuto come una figlia”. (Fonte Ansa)
Voghera – Si stava andando a costituire. Giuseppe Fidanzati 53anni, figlio del defunto Gaetano, boss di Cosa nostra già a capo del mandamento dell’Acquasanta a Palermo è stato arrestato dai carabinieri appena fuori il carcere di Voghera, dove si stava andando a costituire. Fidanzati era coinvolto nell’ambito dell’operazione antimafia Hydra della pm della Dda Alessandra Cerreti sul cosiddetto «Sistema mafioso lombardo».
Ad attenderlo i carabinieri del nucleo investigativo di Milano che hanno così eseguito l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale del Riesame di Milano, dopo che la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso contro il provvedimento restrittivo in cui Fidanzati è accusato di associazione di stampo mafioso.
Fidanzati, ritenuto un narcotrafficante che sarebbe stato al vertice per conto di Cosa Nostra della presunta «alleanza» con affiliati anche alla ‘ndrangheta e alla camorra, è coinvolto nel blitz che ha visto finire in cella anche Paolo Aurelio Errante Parrino, cugino di Matteo Messina Denaro.
Paolo Aurelio Errante Parrino, 77 anni, è stato arrestato nel pomeriggio di lunedì 27 gennaio, è considerato il referente degli uomini di Matteo Messina Denaro in Lombardia. È cugino del padrino deceduto.
La Cassazione ha respinto anche il suo ricorso contro la decisione del Riesame sull’indagine Hydra, rendendo esecutivo il provvedimento di carcerazione. Al momento dell’arresto stava entrando all’ospedale di Magenta.
Paolo Errante Parrino, nato a Castelvetrano da anni residente ad Abbiategrasso. Sarebbe un uomo chiave, ma lui ha sempre negato ogni suo coinvolgimento sostenendo di essere un pensionato.
Alcuni furono definiti summit. Il 05 marzo 2017 a Peschiera Borromeo si sono dati appuntamento Giuseppe Fidanzati e l’avvocato Antonio Messina. Il primo è figlio di Gaetano, boss deceduto del rione Acquasanta di Palermo, ed ha scontato una lunga condanna per droga. Anche il secondo, massone, è stato condannato per traffico internazionale di droga. Nei loro dialoghi facevano riferimento ad un “ragazzo” di Castelvetrano, identificato in Francesco Guttadauro, nipote del cuore di Matteo Messina Denaro.
In particolare, Fidanzati ricordava di un incontro avvenuto alla stazione di Trapani con “Iddu” (lui ndr) che si era fatto accompagnare a bordo di una Mercedes da un certo “Mimmu”. Non è chiaro se “Iddu” sia riferito a Guttadauro o, come invece sospettarono gli investigatori, a Messina Denaro.
Discutevano di affari da sviluppare in zona. Nella bassa provincia milanese, tra Legnano e Abbiategrasso, si è insediata da anni una comunità di castelvetranesi, fra cui Paolo Errante Parrino. Facevano capo ad un’associazione che ufficialmente organizzava eventi e attività ludiche ed era presieduta dall’avvocato Giovanni Bosco deceduto per un malore all’ospedale di Magenta lo scorso anno. Era tra i quattro arrestati nell’inchiesta milanese su un sistema di bancarotte, frodi fiscali e riciclaggio. La moglie di Errante Parrino è Antonina Bosco. I Bosco sono cugini di Gaspare Como, sposato con Bice, una delle sorelle dell’ex latitante morto dopo l’arresto.
Nel marzo 2021 ci fu un lutto a casa Messina Denaro. Gaspare Allegra, 37 anni, figlio della sorella del padrino, Giovanna, e di Rosario morì durante una gita sul monte Grisone, sul lago di Como. Faceva l’avvocato e collaborava con lo studio legale di Bosco.
Nel portafogli dello zio Matteo, il giorno dell’arresto davanti alla clinica “La Maddalena di Palermo”, c’era una foto del nipote deceduto. Errante Parrino prima organizzò la camera ardente e il trasferimento della salma a Castelvetrano, poi venne in Sicilia. “Sto facendo il mio dovere”, rispondeva così Errante Parrino a chi lo ringraziava.
Il 30 novembre successivo sul telefonino di Errante Parrino furono inviati via Whatsapp i documenti di Vito Panicola, figlio di Vincenzo e di un’altra sorella di Matteo Messina Denaro, Patrizia. Il giovane cercava lavoro e voleva trasferirsi a Vigevano (la città dove era detenuta la madre).
Entrambi i genitori sono stati condannati per mafia, la donna è ancora in carcere. Finirà di scontare la pena fra un paio di anni. Le trasferte di Errante Parrino a Castelvetrano si sono ripetute. Faceva visita alle sorelle, ma anche alla madre del latitante Lorenza Santangelo.
Nel 2021 ci fu un duro scontro fra Gioacchino Amico e i Pace di Trapani, inseriti, secondo la Procura di Milano, nel “sistema illecito degli affari”. Questioni di investimenti e di soldi mai restituiti. Per dirimere la faccenda sarebbe stato chiesto l’intervento di Matteo Messina Denaro.
L’ambasciata sarebbe arrivata tramite Paolo Errante Parrino e l’avvocato Messina, monitorato durante una serie di incontri al bar San Vito, si trova a pochi metri dall’ultimo covo del latitane a Campobello di Mazara.
“Gli incontri, soprattutto quelli ai quali ha partecipato Antonio Messina, a pochi metri dal covo assumono dopo la sua cattura – annotarono gli investigatori – un rilievo investigativo di primo piano, anche alla luce delle pregresse acquisizioni tecniche, che confermano come Matteo Messina Denaro fosse informato circa le operazioni finanziarie gestite dal sistema mafioso lombardo, tramite Paolo Errante Parrino”.
Alcamo – I processi si fanno caso per caso. E sul delitto di Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, i due carabinieri uccisi il 27 gennaio 1976 all’interno della caserma di Alcamo Marina dove prestavano servizio, i processi ci sono stati, anche le condanne, ma si è scoperto essere stati giudizi, di colpevolezza, truccati. I condannati hanno ottenuto la revisione del giudicato processuale, furono costretti a confessare la loro colpevolezza, quando erano assolutamente innocenti, chi li ha accusati nel frattempo, e a ridosso di quel 1976, è morto suicida in carcere, e tutto è finito inghiottito in un grande buco nero.
A riaprire il caso in ultimo ci ha provato la commissione nazionale antimafia, quella della precedente legislatura, presieduta dal senatore Nicola Morra. Atti dell’inchiesta parlamentare sono stati trasmessi alla Procura della Repubblica di Trapani. Ma come società civile abbiamo il dovere di interrogarci. Guardando al contesto. E quello che ci viene davanti agli occhi è quello trapanese, teatro di questi omicidi come di tanti altri. La terra dei “poteri forti”, intrecci tra mafia, politica, imprese, banche e…massoneria. Ci sono pagine e pagine di sentenze dove si fa riferimento a questa realtà, dove viene descritto il palcoscenico di quegli anni, dove apparati dello Stato facevano finta di attaccare la mafia, anche se ancora così molti non la chiamavano, anzi c’è di più, per tanti la mafia nemmeno esisteva, e invece con i mafiosi facevano accordi. Gladio arriva presto in Sicilia. Era già qui negli anni ’70 la struttura paramilitare creata in nome della guerra fredda, per organizzare un esercito di “patrioti” pronti a difenderci dal pericolo comunista. Ora immaginate questi gladiatori in Sicilia. A far che? Con il pericolo sovietico, l’est europeo è da tutt’altra parte. Gladio era qui per far altro. E quelli che erano patrioti forse erano tutto fuorché patrioti. La mafia, specialista negli inciuci, così faceva grandi favori. La Sicilia era una sorta di portaerei che guardava al Mediterraneo, ai paesi cosiddetti frontalieri. Nord Africa, Medio Oriente, il mare era pieno di un andirivieni di traffici…segreti. In terra di Sicilia però c’era da ottenere il lasciapassare di Cosa nostra. E così negli interscambi la mafia otteneva droga e armi. E incrementava i propri incassi. Denaro che puntualmente finiva nei grandi riciclaggi, dentro le banche siciliane innanzitutto.
Come due carabinieri che scoprono mezzi pesanti pieni di armi, un magistrato che si imbatte nei conti correnti di certi imprenditori, un altro ancora che scopre container in arrivo e in partenza dal porto di Trapani che portavano dentro cose del tutto diverse dalle merci dichiarate, un giornalista che intuisce la consistenza della mafia trapanese e non nasconde al pubblico che lo ascoltava le sue certe convinzioni, e potremmo andare avanti. Tutti fatti ufficialmente non collegati, ma che hanno lo stesso comune denominatore, delitti mafiosi con coperture eccellenti.
Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta non sappiamo da chi sono stati uccisi, ma certamente sono stati uccisi per aver fatto il loro dovere, in una terra dove all’epoca il dovere più forte esistente era quello di girarsi dall’altra parte. E questo avveniva però con il consenso di quella borghesia alla quale faceva comodo che qualcuno si sporcasse le mani, anche di sangue. Noi siamo soliti ricordare le vittime delle mafie nei giorni delle tristi ricorrenze. Può andare bene, possono essere apprezzati gesti, iniziative e cerimonie, ma nei giorni successivi abbiamo il dovere, ognuno di noi, di tirare fuori quella melma che ancora oggi copre questo territorio, questa provincia di Trapani. Perché quei tremendi inciuci di un tempo non sono stati cancellati, resistono, non possono esserci più i protagonisti di quel tempo, ma il sistema criminale esiste e resiste.
Allora raccontiamo le cose come sono andate, che Carmine e Salvatore non sono stati uccisi da dei balordi, che Ciaccio Montalto non è stato ucciso per caso, che Carlo Palermo doveva morire perché aveva guardato dentro le casseforti di certi partiti, che Mauro Rostagno fu ammazzato perché voleva denunciare l’esistenza del tavolino per la spartizione dei grandi appalti. Un contesto nel quale c’era un sistema pronto e lesto poi nel trasformare quegli omicidi quasi come se fossero conseguenza di fatti privati. Non erano delitti per fatti privati! Ammazzati perché per loro esisteva come prima cose il dover fare fino in fondo il loro dovere. Quello di dare un futuro onesto a questa terra dove tanti erano e sono i disonesti. A Trapani il tempo passa, ma le cose sembrano non cambiare mai, una ragnatela in cui si impiglia chiunque cerchi giustizia.
Abbiategrasso (Milano) – La richiesta d’arresto per lui era stata bocciata dal gip, come per molti altri, ma poi il Riesame ha accolto il ricorso della Dda di Milano e la Cassazione ha confermato quella decisone e disposto la custodia cautelare in carcere che doveva essere eseguita ieri. Ma Paolo Aurelio Errante Parrino, 77 anni, uno degli indagati della maxi inchiesta “Hydra” sulla “alleanza” delle tre mafie nel nord Italia, è irreperibile. Per gli inquirenti, Parrino, residente ad Abbiategrasso, nel Milanese, collegato al clan di Castelvetrano, sarebbe stato il “punto di raccordo” tra il presunto “sistema mafioso” in Lombardia, che avrebbe unito presunti affiliati di Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra, e il defunto Matteo Messina Denaro, suo cugino da parte di madre.
La decisione del Riesame, che ha riconosciuto l’imputazione principale di associazione mafiosa come contestata dal procuratore Marcello Viola e dal pm Alessandra Cerreti nell’inchiesta dei carabinieri del Nucleo investigativo, era arrivata lo scorso ottobre, dopo che il gip Tommaso Perna nell’ottobre del 2023 aveva rigettato 142 istanze di misura cautelare su 153, disponendo 11 arresti. E bocciando l’accusa sul “consorzio” delle tre mafie, ribattezzato dai pm “sistema mafioso lombardo”. In questi giorni la Cassazione sta respingendo mano a mano i ricorsi delle difese contro il Riesame, come quello discusso venerdì dalla difesa di Errante Parrino. Alcuni arresti sono già stati effettuati nei giorni scorsi, mentre Parrino è irreperibile. Il caso “Hydra” aveva anche creato uno scontro tra pm e ufficio gip, a seguito della bocciatura dei numerosi arresti richiesti.
Nei giorni scorsi, poi, dopo le prime decisioni della Cassazione di conferma del Riesame, sono stati arrestati diversi indagati, tra cui anche Gioacchino Amico, presunto vertice della “struttura unitaria” lombarda per conto della Camorra del clan dei Senese. Poi scarcerato, però, per motivi procedurali, perché aveva già passato un anno in custodia cautelare per altri reati riconosciuti dal gip nella stessa inchiesta. Anche altri, come Massimo Rosi, presunto esponente di vertice per la ‘ndrangheta, sono stati scarcerati per questo motivo e non è stato necessario un nuovo arresto per un altro indagato, difeso dall’avvocato Lorenzo Meazza.
Il Riesame, dopo il ricorso della Dda su 79 posizioni con richiesta di carcere per associazione mafiosa, aveva disposto il carcere per 41 indagati e le udienze in Cassazione andranno avanti fino a metà febbraio.
Secondo le indagini della Dda, Errante Parrino avrebbe anche passato a Messina Denaro “comunicazioni relative ad argomenti esiziali”, mentre era latitante, anche perché il boss avrebbe avuto un interesse diretto, secondo i pm, “negli ingenti affari finanziari realizzati in Lombardia dal sistema mafioso lombardo”.
Per il Riesame deve andare in carcere anche Giuseppe Fidanzati, presunto vertice per conto di Cosa Nostra (l’udienza in Cassazione si terrà la prossima settimana).
Agrigento -Blitz antimafia dei carabinieri del reparto Operativo di Agrigento che hanno eseguito e notificato 48 misure cautelari.
Ai 24 fermi delle scorse settimane, sono seguite – fra Agrigento, Favara, Canicattì, Porto Empedocle e Gela – le ordinanze di custodia cautelare a carico di altri 24 indagati che erano rimasti a piede libero lo scorso dicembre.
A firmare i provvedimenti è stato il gip del tribunale di Palermo, Antonella Consiglio su richiesta della Dda di Palermo.
L’inchiesta è quella che ha fatto luce sui presunti appartenenti a Cosa Nostra e un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.
Complessivamente 51 gli indagati, di cui 36 ristretti in carcere, mentre per i restanti 15 la misura cautelare degli arresti domiciliari.
Nel corso della notte, i militari dell’Arma hanno notificato un totale di 48 misure cautelari. Per tre non si è potuto procedere perché, al momento, si trovano all’estero.