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Muore a New York Sal Palmeri, la voce degli italiani d'America

La sua radio ICN, Italian Communication Network, raccontava l'Italia agli italiani emigrati

Redazione

E' morto a New York Sal Palmeri. Che a voi dirà poco, forse nulla. Ma Sal ha una storia incredibile. Basti pensare che per 50 anni e passa è stata la voce degli italo-americani attraverso la sua radio, la ICN, Italian Communication Network. Così Lucio La Sala commenta sui social la triste notizia della morte di Sal Palmeri. Ecco chi era Sal Palmeri, raccontata da La Sala.

Sal, la voce degli italiani d’America

Cinquant’anni vissuti in un seminterrato. Bagno, cucina, macchinetta del caffè («moka, of course») e uno studio radiofonico che ha ospitato tutti i più grandi artisti della canzone italiana. Alle pareti le foto di una carriera incredibile: le interviste a Mimmo Modugno e Claudio Villa, l’incontro con Papa Wojtyla, i concerti organizzati al Madison Square Garden, persino l’onorificenza che la città di New York riserva soltanto ai suoi “figli migliori”. Niente male per un ragazzino di Roccamena destinato a fare il calzolaio come il papà e diventato invece “The Voice”, la voce degli italiani d’America.

Quella di Sal Palmeri sembra una storia da film. L’emigrazione in cerca di fortuna, le difficoltà di tutti i “paisà” scaraventati dall’oggi al domani in una terra da fantascienza, l’emarginazione prima del riscatto. Tutto merito di un microfono, di una certa dose di incoscienza e di «quel colpo di fortuna che, al momento giusto, ti cambia completamente la vita». Sal ha inventato la radio italiana in America, ha portato nelle case degli emigranti la musica che loro nemmeno conoscevano, si è inventato le dirette da Sanremo quando non c’erano satelliti, ha regalato agli appassionati di calcio l’emozione di sentire le radiocronache anche dall’altra parte del mondo. «Sempre da solo, con qualche amico imprenditore che anticipava quei 100 dollari che mi servivano e con l’entusiasmo dei 20 anni che non mi ha mai abbandonato. Anche adesso che di anni ne ho 73...».

E pensare che Sal, appena sbarcato a “Nuova York”, la radio nemmeno la ascoltava. «Ci sono finito per caso, volevo fare l’attore melodrammatico. Le emozioni che ho provato sul palcoscenico quando recitavo nelle feste del mio paese non le ho mai dimenticate». Palmeri si siede alla consolle dello studio personale che si è costruito nella sua bella palazzina del Queens. Ci sono i piatti per i 33 giri e persino il ripiano delle cassette musicali. Sembra di essere tornati indietro nel tempo: «Il web? No, non fa per me. E infatti l’estate scorsa, quando l’editore mi ha informato che il programma sarebbe andato soltanto in streaming, ho mollato». Quell’ultima puntata di “Buongiorno Italia” su ICN Radio, 24 ore su 24 di musica del Belpaese, a New York se la ricordano in tanti: centinaia di telefonate, gente in lacrime che lo implorava di ripensarci, la comunità italo-americana quasi a lutto. Già, perchè da queste parti Sal è una specie di istituzione. Tanto che ogni anno, il 10 febbraio, centinaia di persone scendono in strada per festeggiarlo: «Guarda, questo è il decreto del Congresso che istituisce al Queens il “Sal Palmeri Day”. Hanno scelto quella data perchè il 10 febbraio del 1965 ho debuttato davanti a un microfono. Sempre parlando l’italiano, fedele alla linea fino a luglio del 2013. Quarantotto anni e mezzo in tutto».

Durante i quali Sal si è sposato - «ma non è andata bene, capita» - ha fatto il dj nelle discoteche degli italo-americani, ha scritto sceneggiature di film, senza contare le serate con i big della canzone italiana nei concerti più importanti della Grande Mela, «sempre sold out», dice con un pizzico di orgoglio. «Una gran bella vita, credimi. Non mi sono arricchito, questo è certo, ma mi sono divertito tantissimo. E se penso ai primi tempi qui, in terra straniera, quasi non credo a tutto quello che sono riuscito a realizzare».

La storia di Salvatore, subito ribattezzato Sal appena sbarcato in America, comincia a Roccamena, un minuscolo centro dell’entroterra palermitano a due passi da Corleone: «Mia madre era nata in Louisiana, mio padre era proprietario terriero. Potevamo vivere di rendita, ma i miei genitori decisero che per me e i miei fratelli era meglio vivere a New York. Gli Stati Uniti erano un sogno alla fine degli anni Cinquanta, da noi non c’erano nemmeno le scuole medie. E quindi a 16 anni mi trovai qui, senza parlare una parola d’inglese e con un unico obiettivo: diventare attore di teatro, recitare i classici anglosassoni, il mio mito era Shakespeare».

Il ragazzo ha la testa dura: litiga col padre che vorrebbe instradarlo verso un lavoro “normale”, si scrive a un corso di recitazione all’Hunter College, viene scelto per una parte nella commedia “La zia di Carlo”. Poi, quasi per caso, scopre che in una radio cercano speaker italiani e si presenta alle selezioni: «Mi scartano immediatamente per via dell’accento troppo siciliano. Ma proprio mentre stavo per andare, il proprietario mi richiama e mi offre uno spazio di mezz’ora. A patto, però, che trovassi gli sponsor. Insomma, avrei dovuto pagare per lavorare: cinque trasmissioni, 30 dollari. Accettai e ricordo ancora la sfuriata di mio padre quando lo seppe. Però fu la mia fortuna».

Già, come nel film “Sliding Doors”, quell’imprenditore radiofonico che propone a Sal un programma a pagamento, è la classica “porta scorrevole” verso il successo: «Sarebbe bastato un attimo di distrazione, magari una telefonata: quell’uomo non mi avrebbe più richiamato e chissà che cosa mi avrebbe riservato la vita».

E invece il programma funziona, la pubblicità non manca, nella comunità italo-americana quel ragazzo siciliano comincia a piacere. Tanto che il titolare dell’emittente gli raddoppia lo spazio, e stavolta non gli chiede nemmeno il pagamento anticipato. Palmeri alterna la radio alle feste di piazza, nei weekend fa il dj nelle discoteche del Queens, di Manhattan, al Bronx, i dollari cominciano a girare. «Negli States gli emigranti conoscevano soltanto i cantanti che avevano lasciato in Italia. Claudio Villa, Nilla Pizzi, Aurelio Fierro, Nunzio Gallo. Grandissimi, per carità, ma nel frattempo il mondo stava cambiando e i giovani avevano voglia di ascoltare qualcosa di diverso, di più moderno. Per fortuna nel mio palazzo abitava un ragazzo appena emigrato dall’Italia. Si era portato dietro un bel po’ di 45 giri di cantanti che qui negli States erano quasi sconosciuti. Da Domenico Modugno a Gianni Morandi, da Celentano a Bobby Solo. Mi feci prestare i dischi e li passai in radio. Fu un trionfo. Con l’aiuto di amici riuscii a contattare quegli artisti per organizzare le loro tournée americane, li portai in studio e gli ascolti salirono alle stelle. E un sacco di volte ho anche presentato i loro show al Madison Square Garden».

Ma la mente vulcanica di Sal Palmeri non si ferma qui: «Una notte mi venne un’idea. Perchè non far ascoltare in diretta anche in America il festival di Sanremo? Di solito ci voleva almeno un mese prima che le canzoni arrivassero anche qui. Già, ma come fare? Mica c’era Internet, il satellite. E allora chiamai un amico, gli dissi di avvicinare il telefono al televisore e mandai in onda tutta la serata. Mi costò mille dollari quella chiamata, si sentiva malissimo ma il giorno dopo in radio c’era la fila degli ascoltatori. Mi ringraziavano commossi».

Poi fu la volta del calcio. Gli appassionati dovevano aspettare almeno un paio di giorni per trovare sui giornali i risultati del campionato italiano. Sal chiese alla Rai di poter usare il segnale internazionale: «Loro non ci avevano nemmeno pensato, mi dissero di sì e fu un altro clamoroso successo».

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